IL TRIBUNALE

    Ha   pronunciato   la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  di
esecuzione a carico di Claudio Fait.
                    Svolgimento del procedimento
    Con  richiesta  depositata  in  data  1  settembre  1999  il p.m.
chiedeva  la  revoca  parziale  della sentenza penale di condanna del
pretore di Rovereto n. 254/1997 del 6 ottobre 1997 e confermata dalla
Corte  di  appello  di  Trento,  con  la  quale  Claudio  Fait veniva
condannato alla pena di mesi 1 di reclusione per i reati p.e p. dagli
artt. 699,  688  e  341  c.p., uniti nel vincolo della continuazione,
sulla  base  dell'intervenuta abrogazione dell'art. 341 c.p. disposta
dall'art. 18    legge   25 giugno   1999,   n. 205,   e   conseguente
rideterminazione  della  pena.  Con  ordinanza  pronunciata all'esito
dell'udienza  in  camera  di  consiglio  del  14 ottobre 1999, questo
giudice    sollevava   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 341  c.p.  e  degli  artt. 2,  comma 3 c.p. e 673 c.p.p. La
Corte  costituzionale  con  ordinanza  22 marzo-10 aprile 2001 (nella
Gazzetta   Ufficiale   18 aprile   2001)   dichiarava   la  manifesta
inammissibilita'  di  entrambe  le questioni, essendo stati i quesiti
posti   "in   un   legame   irrisolto  di  alternativita',  senza  un
collegamento   di   subordinazione   logica   che   consentirebbe  la
delibazione  della  questione  subordinata  in  caso  di rigetto o di
dichiarazione  di  inammissibilita'  di  quella  che  precede".  Alla
successiva  udienza  del  29 maggio  2001  questo  giudice  sollevava
nuovamente  le  medesime  questioni  di  legittimita' costituzionale,
dando lettura alle parti della presente ordinanza.

                       Motivi della decisione

    1. - Premessa:  interpretazione della disciplina vigente (artt. 2
c.p. e 673 c.p.p.).
    Ritiene  questo giudice di dover riproporre le medesime questioni
di legittimita' costituzionale nonostante l'intervenuta dichiarazione
di manifesta inammissibilita'.
    Preliminarmente   occorre   muovere   dalla   medesima   premessa
interpretativa  di cui alla precedente ordinanza di remissione, ossia
l'impossibilita' di applicare al caso di specie l'art. 673 c.p.p., ma
che  ora  va  ulteriormente  argomentata  in  relazione ai numerosi e
contrastanti  precedenti  giurisprudenziali intervenuti nel frattempo
sul punto.
    La  norma  citata,  secondo  la  consolidata  interpretazione  di
dottrina e giurisprudenza, fa riferimento non gia' ad ogni ipotesi di
abrogazione  di  una  norma  incriminatrice o all'approvazione di una
legge  penale  piu' mite, bensi' alla piu' limitata fattispecie della
c.d.  abolitio  criminis, disciplinata, sotto il profilo sostanziale,
dall'art. 2,  comma  2  c.p.  Affinche'  si possa parlare di abolitio
criminis  occorre  che  la nuova legge ponga nel nulla il giudizio di
disvalore astratto del fatto reato, sicche' i comportamenti descritti
dalla  norma  incriminatrice  abrogata siano ricondotti nell'area del
(penalmente)  lecito.  Viceversa  nel  caso  in  cui  le  condotte in
questione  rimangano  oggetto di un giudizio di disvalore astratto da
parte  del  legislatore  e,  dunque,  penalmente rilevanti, ancorche'
sottoposte  ad  una  diversa disciplina, non si puo' far questione di
una vera e propria abolitio criminis, bensi' semplicemente di un mero
intervento  legislativo  in  senso  modificativo,  con la conseguente
applicabilita'  dell'art. 2,  comma  3  c.p.  In particolare la norma
citata  dispone  si'  l'applicazione  della  norma piu' favorevole e,
dunque,  se  piu'  favorevole  e'  la  nuova  norma quest'ultima deve
trovare  applicazione in via retroattiva, ma pone immediatamente dopo
un limite invalicabile, rappresentato dalla condanna irrevocabile.
    Ora,  e'  ben noto che un fenomeno di successione di leggi penali
nel  tempo  in  senso  meramente  modificativo,  si  puo' avere anche
attraverso  la  mera  abrogazione di una norma incriminatrice, quando
cio'  comporti  non gia' la riconduzione nella sfera del lecito delle
condotte rientranti nella fattispecie abrogata, bensi' l'applicazione
di  altre  norme penali gia' vigenti. Cio' si verifica in particolare
nel  caso  in  cui  ad  essere  abrogata  e' una norma incriminatrice
speciale  rispetto  ad  altra norma incriminatrice generale la quale,
per   effetto  dell'abrogazione  dell'incriminazione  speciale,  vede
ampliata  e  dilatata  la  propria sfera di applicabilita', in quanto
l'intera  classe  degli  oggetti  gia'  sussumibile nella fattispecie
speciale,  rifluisce  in  essa automaticamente, salvo, beninteso, non
emerga  la volonta' legislativa di espungere tale materia dalla sfera
del penalmente rilevante.
    Nel   caso   di   specie   e'   indiscutibile  che  l'abrogazione
dell'art. 341 c.p. ad opera dell'art. 18 legge 25 giugno 1999, n. 205
non  ha  affatto  comportato  una  vera  e propria abolitio criminis,
bensi'  una  semplice  successione di leggi penali incriminatrici nel
tempo  in  senso  modificativo, dal momento che tutti i comportamenti
previsti   dall'art. 341   c.p.   dovranno  d'ora  in  avanti  essere
ricondotti  alla  piu'  generale  fattispecie  dell'ingiuria  di  cui
all'art. 594   c.p.,  aggravata  ai  sensi  dell'art. 61  n. 10  c.p.
Significato  della riforma infatti non e' certo quello di rendere del
tutto  lecite  le  offese  all'onore  e al prestigio sol perche' rese
contro  i  pubblici  ufficiali  a  causa  o nell'esercizio delle loro
funzioni,  bensi'  di  ricondurle  alla  fattispecie  generale di cui
all'art. 594  c.p.,  posta  a  presidio  dell'onore  e  del decoro di
qualsiasi  persona.  La  considerazione che tra le due fattispecie vi
fosse  un  rapporto  di  genere  a  specie,  integrando l'oltraggio a
pubblico   ufficiale  nient'altro  che  un'ingiuria  qualificata  dal
particolare  status  della  persona  offesa  (oltre che dall'elemento
espresso   dalla   formula   "a  causa  o  nell'esercizio  delle  sue
funzioni"),   nonche'  la  relazione  strutturale  tra  gli  elementi
omogenei  della  fattispecie  tale da rendere evidente un rapporto di
contenenza  tra  le  due  previsioni,  rende  sicura  la  conclusione
raggiunta.
    Sennonche'  l'intervento  sul  punto  di  numerose sentenze della
Cassazione   in  senso  decisamente  contrastante  (nel  senso  sopra
indicato  cfr.  Cass., 29 settembre 2000, n. 3144 in Riv. pen., 2001,
41;  Cass.,  7 giugno  2000, n. 3137; Cass., 25 maggio 2000, n. 2744;
Cass.,  19 maggio  2000, n. 2743; Cass., 11 aprile 2000, in Foro it.,
2000,  II,  593  e  in Giur it., 2000, 1895; Cass., 23 febbraio 2000,
n. 2127;  Cass.,  13 gennaio  2000,  n. 3946;  Cass., 14 luglio 1999,
n. 10932;  contra  nel  senso che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. ha
comportato  una  vera  e  propria abolitio criminis Cass., 8 novembre
2000, n. 1455, in Riv. pen., 2001, 41; Cass., 7 giugno 2000, n. 3165;
Cass., 25 maggio 2000, n. 2779; Cass. 17 aprile 2000, n. 1805; Cass.,
10 aprile  2000, n. 1803, in Foro it., 2000, II, 594; Cass., 10 marzo
2000,  in Foro it., 2000, II, 594; Cass., 11 febbraio 2000, n. 518 in
Cass.  pen.,  2000,  1618  e  in  Foro  it.,  2000,  II,  595; Cass.,
14 gennaio  2000,  n. 356;  Cass., 27 novembre 1999, n. 13499 in Foro
it.,  2000,  II,  236  e in Cass. pen., 2000, 1614), tanto da rendere
auspicabile  un  sollecito  intervento  delle  sezioni  unite,  rende
doveroso  un  approfondimento della motivazione. Infatti il contrasto
giurisprudenziale instauratosi comporta l'impossibilita' di rinvenire
allo   stato   un  "diritto  vivente",  quale  punto  di  riferimento
interpretativo  obbligato, ma potrebbe essere assunto quale ulteriore
motivo  di  inammissibilita'  o comunque di infondatezza, richiamando
l'obbligo  del  giudice  a  quo di scegliere fra piu' interpretazioni
possibili quella conforme al dettato costituzionale. Poiche', come si
e'  visto,  l'interpretazione  che  ravvisa  nel  caso  di  specie un
fenomeno   di  abolitio  criminis  non  comporta  alcun  problema  di
legittimita'  costituzionale, assicurando l'immediata revoca di tutte
le  sentenze  irrevocabili  di  condanna  per il delitto di oltraggio
mentre   l'opposta   interpretazione   comporta   tutti  i  dubbi  di
legittimita'   che   di  seguito  si  andranno  ad  esporre,  sarebbe
giocoforza  preferibile  la prima opzione esegetica a discapito della
seconda.  In contrario ritiene questo giudice che manchi nella specie
il  presupposto  per  l'applicazione  del  canone  ermeneutico  della
conformita'  a Costituzione, precisamente quello della "possibilita'"
alla  stregua  della  lettera  e  della ratio della legge, violate le
quali  l'interpretazione adeguatrice si trasforma in un'inammissibile
interpretazione correttiva.
    Al  riguardo  va  in  primo  luogo  osservato  che  i concetti di
abolitio  criminis  (comma  2  dell'art. 2  c.p.) e di successione di
leggi  penali  nel  tempo  (comma  3  dell'art. 2 c.p.) sono concetti
elaborati dalla scienza giuridica, per la verita' non senza contrasti
e  differenze  di  opinioni,  ma  comunque in modo rigoroso e che non
possono  essere  adattati  a  piacimento a seconda del caso concreto,
neppure   col   lodevole  proposito  di  ottenere  esiti  applicativi
maggiormente  conformi  ad  equita'. La tesi che ravvisa una abolitio
criminis dovrebbe coerentemente scegliere per i procedimenti in corso
e  futuri  tra  questa  alternativa,  a  seconda  del rapporto che si
ritiene  debba  affermarsi  col  delitto  di  ingiuria:  ritenere che
l'abrogazione  dell'art. 341  c.p. abbia reso penalmente lecite tutte
le  offese  all'onore  e al prestigio di un pubblico ufficiale in sua
presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, assumendo che
la fattispecie del delitto di ingiuria sia rimasta del tutto immutata
per  l'assoluta  eterogeneita'  tra  le due figure, ed allora si deve
procedere ad assoluzione "perche' il fatto non e' piu' previsto dalla
legge come reato", sia per i fatti pregressi che per quelli futuri, a
nulla  rilevando  il  profilo  della  procedibilita' (in tesi si deve
infatti concludere che nei casi di oltraggio a pubblico ufficiale, da
un  lato,  non  si  realizza  il  fatto  tipico dell'art. 594 c.p. e,
dall'altro,  non  e'  punito  da nessuna altra norma incriminatrice);
oppure,  piu' verosimilmente, assumere che a seguito dell'abrogazione
dell'art. 341 c.p., l'art. 594 c.p. veda espandersi l'area di propria
pertinenza  dovendo  includersi  (quasi)  tutti i fatti in precedenza
ricondotti  all'art. 341 c.p., ma con l'avvertenza che, a causa della
(relativa)  eterogeneita'  delle fattispecie, questa conclusione vale
solo  per  il  futuro,  non  per  i  fatti  pregressi: in sostanza si
realizzerebbe  il  binomio  abrogazione  -  nuova  incriminazione che
comporta  la  punibilita' per i fatti futuri riconducibili alla nuova
fattispecie   (l'ingiuria,  cosi'  come  modificata  dall'abrogazione
dell'art. 341  c.p.),  ma  l'assoluzione  per  i  fatti pregressi con
revoca  delle condanne irrevocabili. In sostanza i fatti di oltraggio
commessi  prima  dell'entrata in vigore dell'art. 18 legge n. 205 del
1999  non  potrebbero  essere  puniti alla stregua dell'art. 341 c.p.
trattandosi  di  norma  abrogata e neppure alla stregua dell'art. 594
c.p.,    cosi'   come   modificato   per   effetto   dell'abrogazione
dell'art. 341  c.p., per il principio di irretroattivita' delle nuove
norme  incriminatrici (rappresentato dal "nuovo" art. 594 c.p., privo
di  rapporto  di  continuita' con l'art. 341 c.p.). Tutto cio', lo si
ribadisce,  senza  che  assuma  alcun  rilievo  il  diverso regime di
procedibilita' e la possibile applicazione a questi casi dell'art. 19
legge n. 205/1999.
    Vale  solo la pena di sottolineare che nessuno ha avuto l'ardire,
a  quanto  consta,  di sostenere la prima alternativa, trattandosi di
una  soluzione  tanto  assurda  quanto  iniqua,  oltre che foriera di
ulteriori  problemi  di  costituzionalita',  perche'  da un regime di
privilegio  di tutela della dignita' personale dei pubblici ufficiali
si  passerebbe  ad  un regime irrazionalmente discriminatorio ai loro
danni.
    Un maggior  grado  di  (apparente)  plausibilita'  ha  invece  la
seconda  alternativa  che  viene  essenzialmente  giustificata  sulla
scorta  della  diversita'  tra  beni giuridici protetti dall'art. 341
c.p.  e  dall'art. 594  c.p.,  rispettivamente indicati nel prestigio
della  pubblica  amministrazione  e  nell'onore  (o  nel  decoro) del
singolo.  Tale  diversita' comporterebbe, da un lato, l'eterogeneita'
tra  le  due  figure  e, dall'altro, la negazione di quel rapporto di
specialita' che porrebbe in irrimediabile crisi la tesi dell'abolitio
criminis.  Si  assume  infatti, a giustificare la circostanza che mai
prima dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. si e' ravvisato un concorso
formale  tra  oltraggio  e ingiuria (come invece sarebbe logico se si
accedesse  alla tesi della eterogeneita' delle relative fattispecie),
che  il  rapporto  tra  le due figure non e' di specialita' ma di (un
meglio  precisato)  "assorbimento", sicche' solo impropriamente, anzi
erroneamente,  l'art. 594  c.p.  viene  nella  prassi  definito quale
"norma  generale". Ad avvalorare queste argomentazioni si osserva che
vi  sono  condotte  che possono integrare il reato di oltraggio e non
quello di ingiuria (cfr. Cass., 10 aprile 2000, n. 1803 e 27 novembre
1999,  n. 13349  cit.).  Sennonche' del tutto discutibile e', come si
avra'  modo  di  vedere  diffusamente  in  sede  di motivazione della
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 341  c.p.,  la
premessa  della effettiva diversita' dei beni giuridici che comunque,
anche   fosse   vera,   appare   inconferente.   Secondo  i  migliori
insegnamenti  della  dottrina, infatti, il rapporto di specialita' ha
natura  logico-formale  e,  pertanto,  non  attiene  affatto al piano
dell'oggettivita' giuridica, del tutto opinabile, manipolabile in via
interpretativa  e  spesso  impli-cante  precise  scelte di valore. Da
questo  punto  di  vista  non  puo' sfuggire che tanto l'art. 594 c.p
quanto l'art. 341 c.p. menzionano il concetto di "onore", che secondo
la  comune opinione rimanda alle qualita' morali di cui e' dotata una
persona, mentre il concetto di "prestigio", cui si riferisce soltanto
la  norma  sull'oltraggio,  non  sarebbe  che  una specificazione del
concetto  di  "decoro"  di  cui  all'art. 594  c.p.,  trattandosi  in
sostanza  di  quella  particolare  forma  di decoro determinata dalla
posizione  del  soggetto  e  attinente  alla  dignita'  propria della
pubblica  funzione.  Da  questo  punto  di vista assai discutibile e'
l'affermazione  secondo  la  quale sussisterebbero condotte idonee ad
integrare  il  solo  delitto  di  oltraggio  e  non  anche  quello di
ingiuria,  con espresso riferimento "all'uso gergale di un linguaggio
volgare  o  di modi abitualmente scortesi, ritenuti in giurisprudenza
sufficienti per commettere oltraggio e non altrettanto per commettere
ingiuria  nei  confronti  di  un  privato,  in  considerazione  (...)
dell'interesse  pubblico  ad  una  correttezza di modi e in genere al
rispetto dei consociati nei confronti di coloro che sono rivestiti di
pubbliche   funzioni"  (cfr.  testualmente  Cass.  27 novembre  1999,
n. 13349   cit.).   A  parte  l'omessa  individuazione  dei  casi  in
questione,   con   un   minimo   di   precisazione,  ed  a  parte  la
considerazione   che   taluni   eccessi   interpretativi  accolti  in
giurisprudenza ben possono essere considerati come retaggio di schemi
culturali  sorpassati,  non  si  puo'  fare  a meno di notare come la
valutazione  della  natura  offensiva di talune espressioni volgari o
atteggiamenti  scortesi  non possa avvenire prescindendo dal contesto
nel  quale  vengono posti in essere ed al tipo di rapporto instaurato
tra  i  soggetti  in  conflitto. Da questo punto di vista non si puo'
negare  che  la relativa valutazione e' sostanzialmente la stessa sia
alla  stregua dell'art. 341 c.p. che alla stregua dell'art. 594 c.p.,
a  maggior  ragione ove si consideri come la circostanza che l'offesa
sia  arrecata  contro  un  pubblico  ufficiale  nell'atto  o  a causa
dell'adempimento delle funzioni assume un indubbio rilievo tipologico
anche  in  riferimento al delitto di ingiuria, sia pure a livello non
di  elementi costitutivi ma di quelli puramente accidentali, ai sensi
dell'art. 61 n. 10 c.p.
    Si deve pertanto concludere che l'insegnamento tradizionale della
dottrina  pressoche' unanime secondo il quale sussiste un rapporto di
specialita'  unilaterale  fra  le  due  fattispecie,  figurativamente
rappresentato da due cerchi concentrici, colga esattamente nel segno.
    La    tesi   giurisprudenziale   che   ravvisa   nell'abrogazione
dell'art. 341  c.p.  un  caso  di  abolitio criminis ha utilizzato un
ulteriore  argomento  tratto  dalla lettera dell'art. 2, comma 3 c.p.
che  "parla  (..) di leggi posteriori (e non coeve) che siano diverse
da  quelle del tempo in cui fu commesso il reato (e non le medesime),
tanto  che  si  dovrebbe  concludere  che "se una legge posteriore al
fatto dispone l'abrogazione della norma incriminatrice specificamente
applicabile  alla  condotta,  in  nessun  modo  si ha, per quel caso,
l'espansione delle leggi coeve, che pure sarebbero applicabili ove la
legge  abrogata non fosse esistita", pena, si aggiunge, la violazione
del  principio  di  irretroattivita'  in  materia penale, perche' una
legge,  inapplicabile  al  fatto dell'epoca del suo venire in essere,
risulterebbe  applicabile  successivamente  (cfr. testualmente Cass.,
11 febbraio  2000,  n. 518  cit.).  L'argomentazione  si  chiude  con
l'affermazione   che   con   l'abrogazione   dell'art. 341   c.p.  il
legislatore  avrebbe compiuto una nuova valutazione della fattispecie
e  quindi una nuova disciplina del caso, ritenuta piu' opportuna, che
pero'  non  potrebbe  che  valere  che  per il futuro, salvo espresse
previsioni  contrarie  (in modo del tutto analogo al caso del binomio
abrogazione  -  nuova  incriminazione  del  tutto  indipendente).  Ne
dovrebbe conseguire l'esclusione di fenomeni automatici di espansione
di  norme  incriminatrici  ai fatti pregressi, "qualunque rapporto vi
fosse  tra  il disposto abrogato e quello sopravvissuto". Conclusione
che  viene  infine  avvalorata da un ulteriore argomento tratto dalla
procedibilita'.   Precisamente   la   continuita'  dell'illecito  tra
oltraggio  ed ingiuria sarebbe esclusa dalla pretesa inapplicabilita'
dell'art. 19  legge n. 205/1999, in tema di rimessione in termini per
sporgere   querela,   dal   momento   che  la  norma  transitoria  e'
espressamente riferita "solo ai reati perseguibili a querela ai sensi
delle  disposizioni della presente legge o dei decreti legislativi da
essa previsti" (ossia essenzialmente il furto semplice).
    Si tratta tuttavia di argomenti assolutamente non condivisibili.
    Al riguardo autorevole dottrina che si e' dedicata ex professo al
tema delle successioni di legge penali nel tempo, ha chiarito che "il
contenuto di una fattispecie non si apprezza come se questa fosse una
monade   isolata,   ma   nel   contesto   di  tutte  le  disposizioni
incriminatrici  in  concorso apparente, la cui introduzione (o la cui
eliminazione)  condiziona  a  priori  l'applicabilita'  delle altre e
definisce  l'ambito  degli oggetti riconducibili a ciascuna di esse".
Insomma  occorre  realisticamente  prendere atto che l'art. 594 c.p.,
benche'   rimasto   immutato   dal  punto  di  vista  letterale,  sia
sostanzialmente   una   norma   diversa  a  seguito  dell'abrogazione
dell'art. 341  c.p.. che in precedenza col primo era in indiscutibile
rapporto  di  concorso  apparente.  Trattandosi  di una norma diversa
(anche se la disposizione di legge e' rimasta immutata) nulla esclude
che  possa  porsi  in rapporto di successione nel tempo con una norma
precedente   speciale   che   sia  stata  abrogata  e  possa  trovare
applicazione, se piu' favorevole, anche ai fatti pregressi, senza che
sia  per  questo  violato il principio di irretroattivita' in materia
penale. La medesima dottrina sopra richiamata esclude in tali casi la
violazione  del  principio  di  irretroattivita', proprio perche' "il
fatto  previsto  dall'ipotesi  speciale e' (...) riconducibile di per
se' anche all'ipotesi generale: la riconoscibilita' obiettiva del suo
carattere   illecito   e'   quindi  assicurata  da  due  disposizioni
incriminatici  in  concorso  apparente nel qualificarne la rilevanza.
Eliminata la disposizione speciale, non perde per cio' significato la
valutazione  espressa da quella generale, che essendo riferita ad una
classe   di  oggetti  necessariamente  comprensiva  anche  di  quella
riportata  alla  norma speciale, ne perpetua ora il carattere tipico.
In  sostanza,  non  e'  mutato  il  confine  sistematico tra lecito e
illecito  penale  tracciato  esclusivamente  dalla norma generale, ma
solo  la  distribuzione di rilevanza penale per una medesima serie di
situazioni".
    Sulla  scorta  di  queste  osservazioni  si  puo'  osservare come
"l'argomento  delle  leggi  coeve"  si  converte  nel  suo contrario.
Infatti   e'   proprio  la  preesistenza  dell'art. 594  c.p.,  quale
"disposizione  di  legge"  e  l'astratta riconducibilita' ad esso dei
fatti  di  oltraggio  in  concreto esclusa dal concorso apparente con
l'art. 341   c.p.,   ad   escludere  alla  radice  che  l'abrogazione
dell'art. 341  c.p.  possa  comportare  "una  nuova  valutazione  del
legislatore  della  fattispecie"  in termini di illiceita' penale, in
quanto tale applicabile solo ai fatti futuri e non pregressi, come se
si  trattasse  di una "nuova incriminazione" (come a volte avviene in
caso  di  abrogazione  di una norma incriminatrice e sua sostituzione
con  altra  norma  "riformulata"  in rapporto di eterogeneita' con la
precedente).  In  casi  del  genere,  infatti, si pone una stringente
alternativa:  o  successione  di  leggi  penali  nel tempo e, dunque,
applicazione  di  legge piu' favorevole (art. 2, comma 3 c.p.), salvo
il  limite  del  giudicato  o  abolitio criminis "secca", per i fatti
pregressi  ma anche per i fatti futuri. Non puo' escludersi, infatti,
che  l'abrogazione  della  norma speciale sia sorretta dalla volonta'
del legislatore, anziche' di modificare la distribuzione di rilevanza
penale,  di  trasferire  le  situazioni  gia'  comprese  nella  norma
speciale  nella  sfera del lecito. Ma in tal caso l'abolitio criminis
dovrebbe  necessariamente  valere  anche, ed anzi soprattutto, per il
futuro,  mentre  e'  senz'altro  da  escludere,  come gia' detto, che
l'abrogazione  dell'art. 341  c.p. possa comportare la piena liceita'
penale delle offese all'onore e al prestigio dei pubblici ufficiali a
causa e nell'esercizio delle loro funzioni.
    Da   ultimo   va   disatteso   anche  l'argomento  relativo  alla
procedibilita'.   A   parte   l'osservazione   che  la  piu'  recente
giurisprudenza  tende  ad  applicare l'art. 19 lege n. 205/1999 (cfr.
Cass.,  19 settembre  2000, in Dir pen proc., 2001, 62) anche ai casi
di  oltraggio  oggi  riconducibili  al  delitto di ingiuria, va pero'
radicalmente   negato   che   il  confine  tra  abolitio  criminis  e
successione  di  leggi  penali  nel  tempo  possa essere tracciato in
funzione   del   regime  di  procedibilita'.  Infatti  l'art. 2  c.p.
considera  esclusivamente  il  profilo  sostanziale della persistente
illiceita' penale o meno del fatto, senza alcun riferimento al regime
di  perseguibilita'  del fatto medesimo. Invero, una volta accolta la
tesi della natura della querela quale istituto di natura processuale,
ne  segue  che  in  caso di successione di leggi penali nel tempo che
modifichi  la  procedibilita'  da  ufficio  a querela di parte, debba
trovare  applicazione  il  principio  tempus  regit actum, sicche' il
reato  sara'  procedibile  se  al  momento dell'esercizio dell'azione
penale  era  ancora  procedibile  d'ufficio,  a  nulla  rilevando che
successivamente  sia  stato  reso  procedibile a querela di parte. Ne
deriva  ulteriormente  che,  come efficacemente e' stato osservato in
dottrina,  l'art. 19  legge  n. 205/1999  costituisce una deroga alla
disciplina   sopra  tratteggiata,  mirando  a  favorire  la  rinuncia
dell'offeso   alla   repressione   penale   e   a   potenziare  anche
tardivamente,  ovvero  a  processo  iniziato,  la funzione deflattiva
della  procedibilita'  a  querela,  mediante  l'introduzione  di  una
condizione  di  improcedibilita' sopravvenuta rimessa alla volontaria
inerzia  della  vittima.  In  questa prospettiva non vi e' ragione di
escludere  l'applicabilita'  della  norma anche ai fatti di oltraggio
"trasformati" in ingiuria.
    Si   deve   quindi  in  definitiva  affermare  che  l'abrogazione
dell'art. 341  c.p.  non integri una vera e propria abolitio criminis
ma  costituisca  un caso di successione di leggi penali nel tempo tra
lo  stesso  art. 341  c.p.  e l'art. 594 c.p. e cio' qualunque sia il
criterio  che  si ritenga di dover seguire per distinguere fra le due
ipotesi  (continuita'  dell'illecito,  mediazione del fatto concreto,
rapporto  strutturale  tra  fattispecie in termini di contenenza o di
specialita).
    Infine   non   sembra   neppure   praticabile  un'interpretazione
estensiva  dell'art. 673 c.p., tale da recidere il legame sussistente
con l'art. 2, comma 2 c.p. ed assicurare l'applicabilita' della norma
anche  al di fuori dai casi dell'abolitio criminis. A prima vista una
simile    prospettiva   sembrerebbe   trovare   conferma   nell'ampia
formulazione  della  norma  che  fa  riferimento all'"abrogazione ...
della   norma"  e  non  specificatamente  all'abolizione  del  reato,
espressione  che compare solo nella rubrica che, come e' noto, non ha
alcun valore vincolante per l'interprete.
    Sennonche'  una simile prospettiva va con certezza esclusa per un
triplice ordine di motivi.
    Anzitutto  dall'assenza  di  qualsiasi  riferimento  nella  legge
delega ad ammettere deroghe alla disciplina prevista dall'art. 2 c.p.
(cfr.  art. 2  punti n. 96, 97 e 98) deriva che l'interpretazione qui
criticata  implicherebbe delicati problemi di costituzionalita' della
norma  per  eccesso  di  delega,  in riferimento all'art. 77 cost. In
secondo luogo dottrina e giurisprudenza interpretano pacificamente la
norma come riferita esclusivamente ai casi di cui all'art. 2, secondo
comma  c.p. (cfr. Cass., 7 maggio 1998, n. 1002, in Arch. nuova proc.
pen.,  1998,  604;  Cass., 4 luglio 1996, n. 1397, in Riv. pen. 1997,
58;  Cass.  20 agosto 1994, n. 2403; Cass. 3 dicembre 1991, n. 3285).
In  terzo  luogo  ed  infine  e' lo stesso rimedio previsto, ossia la
"revoca" della sentenza di condanna, a chiarire che esso puo' trovare
applicazione  solo  nel  caso  in  cui  il  fatto  per  il  quale  e'
intervenuta  la  condanna  e'  divenuto,  per effetto dell'intervento
della  legge  successiva, penalmente lecito, essendo evidente che nel
caso di mera modificazione della disciplina penale, sia pure in senso
piu'  favorevole  per  il  condannato, e' del tutto inconcepibile una
"revoca"  della  condanna,  dovendosi  comunque  applicare,  a  norma
dell'art. 2,  terzo  comma  c.p.,  la  disciplina piu' favorevole tra
quelle  in successione nel tempo. Si deve pertanto concludere che, in
base  al  diritto  vigente,  al  caso  di  specie  non  puo'  trovare
applicazione l'art. 673 c.p.p., implicitamente invocato dalla difesa,
bensi'  l'art. 2,  terzo  comma  c.p.  ed  essendo  pacifico  che  e'
intervenuta  una  sentenza  irrevocabile  di  condanna  la  richiesta
andrebbe  respinta puramente e semplicemente. Questa conclusione puo'
tuttavia   essere   accolta   solo  previa  esclusione  di  dubbi  di
legittimita' costituzionale non manifestamente infondati e rilevanti,
che invece questo giudice ritiene sussistenti.
    2. - (segue):  Rapporto di subordinazione logica tra le questioni
proposte.
    Posta  questa  premessa,  come  si  ricordera'  le  questioni  di
legittimita' costituzionale rilevanti sono essenzialmente due.
    La prima attiene alla disciplina di cui al combinato normativo di
cui all'art. 2, terzo comma c.p. e 673 c.p.p., nella parte in cui non
consente  la  modifica  del  giudicato,  in  sede  di procedimento di
esecuzione,  nel  caso  di  successione di leggi penali nel tempo con
effetto  meramente modificativo e conseguente all' abrogazione di una
norma   incriminatrice,   perlomeno  nei  casi  in  cui  l'intervento
legislativo  viene  a  porre  in  discussione  addirittura l'an della
sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilita' del reato
oppure  non  solo  del  quantum  ma  anche  della  species  di  pena,
prevedendo  la  nuova  disciplina  la  pena  pecuniaria  (sia pure in
alternativa)  in  luogo  di  quella  detentiva.  La  rilevanza  della
questione  appare  in  tutta  evidenza,  essendo il reato di ingiuria
procedibile solo a querela di parte e punibile con la pena pecuniaria
in  alternativa  a quella detentiva, mentre il reato di oltraggio era
procedibile  d'ufficio  e  con  pena  obbligatoriamente detentiva. Ne
deriva   che   in  caso  di  sentenza  di  accoglimento  della  Corte
costituzionale,  il  venir  meno  del  limite  del giudicato previsto
dall'art.  2, terzo comma c.p., consentirebbe in sede di procedimento
di  esecuzione  la  piena  applicabilita' della nuova disciplina piu'
favorevole.
    L'altra  questione  attiene  direttamente all'art. 341 c.p. ed e'
gia' stata sollevata da questo giudice nell'ambito di un procedimento
di  cognizione (cfr. ordinanza pretore Tolmezzo 9 ottobre 1997, nella
Gazzetta  Ufficiale 18 febbraio 1998, n. 7). La Corte costituzionale,
con   ordinanza  di  data  28 luglio  1999,  n. 378  (nella  Gazzetta
Ufficiale 4 agosto 1999, n. 31) ha naturalmente trasmesso gli atti al
giudice  a  quo  affinche'  rivaluti  la rilevanza della questione in
conseguenza   dell'intervenuta   abrogazione  dell'art. 341  c.p.  E'
evidente  infatti  che  in tutti i giudizi di cognizione in corso per
effetto   dell'intervenuta   abrogazione  dell'art. 341  c.p.  dovra'
trovare  applicazione  la  piu'  mite  disciplina di cui all'art. 594
c.p., ai sensi dell'art. 2, comma 3 c.p.
    Tuttavia,  riguardo  ai  procedimenti  di  esecuzione  relativi a
sentenze di condanna passate in giudicato, un'eventuale dichiarazione
di     incostituzionalita'     dell'art. 341    c.p.    comporterebbe
l'applicazione  dell'art. 30  legge  11 marzo  1953,  n. 87, in luogo
della  disciplina di cui all'art. 2 c.p. In base a tale norma "quando
in  applicazione  della  norma  dichiarata  incostituzionale e' stata
pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l'esecuzione
e  tutti  gli  effetti  penali"  (quarto comma). E' evidente che tale
disciplina  se  in nulla si discosta dall'art. 2, comma 2 c.p. per il
caso di abolitio criminis, comporta una sostanziale differenza per il
caso  di  intervento meramente modificativo, perche' mentre l'art. 2,
comma  3  c.p.  prevede  il limite del giudicato per l'applicabilita'
della  disciplina  piu'  favorevole, l'art. 30 cit., non distinguendo
tra   l'ipotesi   dell'abolitio  criminis  e  quella  dell'intervento
meramente   modificativo   conseguente  all'abrogazione  della  norma
incriminatrice,  impone sempre e comunque efficacia retroattiva della
pronuncia  di  incostituzionalita',  senza  alcun limite processuale.
Cio'  appare  del  tutto congruente con la natura e gli effetti delle
sentenze  di  accoglimento  della  Corte  costituzionale che, secondo
l'interpretazione  largamente  prevalente,  comportano  il venir meno
della  norma dichiarata incostituzionale con effetto en tunc, sicche'
va  escluso  il  presupposto  stesso di un fenomeno di successione di
leggi  penali  del tempo, ossia il succedersi nel tempo di piu' leggi
tutte  ugualmente  valide  ed  efficaci. Ne' l'indicata differenza di
disciplina  tra  abrogazione  e  dichiarazione di incostituzionalita'
della  norma  appare  priva di plausibile ragione, dal momento che il
fenomeno  di  abrogazione  e'  connesso  ad  una nuova valutazione di
opportunita'  politica  compiuta  dal  legislatore che si sostituisce
alla  precedente,  mentre  la dichiarazione di incostituzionalita' si
fonda  su  di  un vizio della norma presente sin dalla sua entrata in
vigore,  sicche'  e' tutt'altro che irragionevole ricollegare effetti
caducatori  piu'  radicali  a  quest'ultima fattispecie rispetto alla
prima.  La  contraria conclusione raggiunta da un'isolata e risalente
giurisprudenza  si  pone pertanto in contrasto sia con la lettera che
con  la  ratio  della legge (cfr. Cass., 19 luglio 1983, n. 1375). In
particolare  non  sembra  seriamente  sostenibile sulla base del solo
rilievo secondo il quale la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli
effetti  penali della sentenza di condanna sarebbe possibile solo nel
caso  in  cui  la  dichiarazione  d'incostituzionalita'  della  norma
incriminatrice,  renda  leciti  i  comportamenti  da  questa  puniti,
analogamente  a  quanto  accade  in caso di abolitio criminis, mentre
nell'ipotesi  in cui la dichiarazione di incostituzionalita' comporti
l'applicabilita'   di   una   diversa   norma   incriminatrice,  piu'
favorevole,  si  dovrebbe  procedere ad una "modifica" del giudicato,
non  prevista  dall'art. 30  cit. Infatti il chiaro significato della
norma e' quello di escludere in materia penale qualsiasi applicazione
della  norma  incriminatrice  dichiarata  incostituzionale, senza che
possa  avere  alcun  rilievo l'intervento di un giudicato e lasciando
del  tutto  impregiudicato  il  meccanismo  processuale attraverso il
quale  raggiungere  questo  risultato. A quest'ultimo riguardo va poi
osservato che una "modifica" del giudicato e' tutt'altro che estranea
al  sistema  di  diritto processuale penale vigente, sol che si pensi
alla  fattispecie  di  cui  all'art. 671  c.p.p. e, nell'ambito dello
stesso  art. 673  c.p.p.,  al caso in cui il giudicato attenga a piu'
reati,  magari  uniti  nel  vincolo della continuazione, solo uno dei
quali  oggetto  di  abolitio criminis. E' pacifico che in tal caso il
giudice  dell'esecuzione debba provvedere ad una sostanziale modifica
del  giudicato  o,  se  si  preferisce,  ad una revoca parziale della
sentenza  di condanna, con rideterminazione della pena in riferimento
ai reati non oggetto di abolitio.
    Se  le  premesse  interpretative  che  precedono sono corrette la
questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., appare,
nonostante  la sua intervenuta abrogazione, ancora rilevante, appunto
perche'  il  suo  eventuale  accoglimento comporterebbe la necessita'
dell'applicazione   dell'art. 30   legge   11 marzo  1953,  n. 87  e,
conseguentemente,  dell'art. 673  c.p.p.  perlomeno in via analogica,
con il sostanziale accoglimento della richiesta mentre, al contrario,
dovrebbe   trovare  applicazione  l'art. 2,  comma  3  c.p.,  con  il
conseguente  rigetto  della  richiesta  medesima. Insomma l'eventuale
incostituzionalita'  dell'art. 341  c.p. non potrebbe inevitabilmente
che   riflettersi  sull'illegittimita'  di  qualsiasi  esecuzione  di
sentenze  penali di condanne, per quanto irrevocabili, per il delitto
di  oltraggio  a  pubblico  ufficiale.  Va  pertanto  sostanzialmente
riproposta  in  tutta  la  sua  complessita' la medesima questione di
legittimita'  dell'art. 341  c.p.,  gia'  sollevata  dal  pretore  di
Tolmezzo con l'ordinanza sopra indicata.
    La  possibilita'  di riproporre le medesime questioni, nonostante
la pronuncia di manifesta inammissibilita' della Corte costituzionale
si  fonda  sulla  considerazione che quella decisione trae origine da
motivi di rito, venendo a costituire una decisione processuale con la
quale  la  Corte  evita  di  entrare nel merito. Piu' precisamente la
decisione di inammissibilita' e' dipesa da un errore tecnico nel modo
di porre le censure di incostituzionalita', non avendo questo giudice
preso una posizione chiara sul nesso di dipendenza logica che lega le
due  distinte  questioni, che vengono pertanto a porsi in un rapporto
di  alternativita' o contraddittorieta', nel senso che l'accoglimento
dell'una  priverebbe di rilievo l'altra. In effetti si deve convenire
che   spetta   al  giudice  a  quo  risolvere  tutti  i  problemi  di
interpretazione    sottesi    alla    questione    di    legittimita'
costituzionale, perche' la Corte costituzionale opera lo scrutinio di
legittimita'  delle  norme,  non  risolve  dubbi  interpretativi.  Ma
proprio  perche'  si e' trattato di un mero vizio processuale si deve
escludere  che  la  decisione  di  inammissibilita'  abbia  efficacia
preclusiva,  dovendosi  al contrario ritenere possibile riproporre le
medesime questioni ad opera dello stesso giudice e nel medesimo grado
di  giudizio,  beninteso  purche'  si provveda ad eliminare il vizio,
mediante  la  fissazione  dell'ordine  logico  in cui le questioni si
pongono.   E'  infatti  principio  consolidato  nella  giurisprudenza
costituzionale   l'ammissibilita'   delle  questioni  subordinate  al
rigetto  od  all'accoglimento  della  questione  principale,  che  si
distinguono  dalle  (inammissibili) questioni alternative proprio per
la  circostanza  che  sono  poste in un ordine logico predefinito dal
giudice a quo (cfr. per tutte sentenza 23 maggio 1995, n. 188).
    Nel  caso  in  esame  si  deve  attribuire  valore  di  questione
"principale"  a quella relativa al combinato di cui all'art. 2. comma
3  c.p. e 673 c.p.p., sia perche' viene in considerazione in via piu'
immediata  e  diretta  nel  procedimento di esecuzione sia perche' le
relative  censure  coinvolgono  tutti  i casi di successione di leggi
penali  nel tempo in cui la legge successiva piu' favorevole modifica
il  regime  di  procedibilita'  del reato o la stessa specie di pena,
sicche'  il suo accoglimento avrebbe effetti di piu' ampia e generale
portata.  Una  volta  riconosciuta  nella  specie  la  ricorrenza  di
un'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e non di una vera
e  propria abolitio criminis, ne deriva l'immediata impossibilita' di
applicare   l'art. 2.  comma  2  e,  correlativamente,  dell'art. 673
c.p.p., dovendosi al contrario trovare applicazione l'art. 2, comma 3
c.p.  nella  parte  in  cui  fa  salvi  in  tali casi gli effetti del
giudicato  anche se la disciplina successiva sia piu' favorevole. Nel
procedimento   di   esecuzione  sono  queste  le  norme  che  vengono
immediatamente  in  considerazione,  essendo  in  prima battuta ed in
linea di principio irrilevante la norma incriminatrice che ha trovato
applicazione in sede di cognizione.
    Pertanto   solo  una  volta  data  applicazione  alla  disciplina
indicata  e,  dunque, rigettata la richiesta di revoca della condanna
ai sensi dell'art. 673 c.p.p., mediante anche il superamento di tutti
i dubbi di legittimita' costituzionale che la stessa solleva, si pone
l'ulteriore problema della permanenza di una esecuzione penale di una
sentenza   di   condanna  che  ha  dato  applicazione  di  una  norma
incriminatrice   -  l'art. 341  c.p.  -  che  in  ipotesi  si  assume
incostituzionale.  Appare  in  conclusione  evidente  che  la seconda
questione assume rilievo solo a condizione che l'altra sia dichiarata
infondata  o  inammissibile,  perche'  non ha senso porsi il problema
della  legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., in riferimento
all'esecuzione  di  una sentenza penale di condanna per il delitto di
oltraggio  a  pubblico ufficiale, se fosse gia' possibile intervenire
in   sede  esecutiva  sul  giudicato  in  senso  modificativo,  dando
applicazione della lex mitior nel frattempo intervenuta.
    3. - I  dubbi di costituzionalita' del combinato normativo di cui
all'art. 2. comma terzo, c.p. e 673 c.p.p.
    Riguardo  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale della
disciplina  di  cui  all'art. 2,  comma  terzo  c.p.  e dell'art. 673
c.p.p.,  in  caso  di modifica legislativa in senso migliorativo, con
riferimento al limite all'applicazione della lex mitior rappresentato
dal  giudicato, e' bene premettere che l'art. 25, comma secondo della
Costituzione non ha espressamente costituzionalizzato il principio di
retroattivita'  della  disciplina  penale  piu' favorevole, essendosi
limitato  a  sancire  il  principio  di  irretroattivita' delle norme
penali  sfavorevoli. Si deve pertanto ritenere in prima battuta che i
principi  espressi  dall'art. 2  c.p.  hanno  una  diversa portata ed
efficacia,  essendo  il  principio  di  irretroattivita'  delle norme
sfavorevoli  (primo  comma)  costituzionalizzato ed essendo invece il
principio  di  retroattivita' delle norme favorevoli (secondo e terzo
comma)  operante  solo  sul  piano della legge ordinaria e, pertanto,
suscettibile   in   linea   di  principio  sia  di  espresse  deroghe
legislative sia di limiti posti in via generale.
    Tuttavia  la  piena  adesione  ad  un  siffatto  ordine  di  idee
presuppone,  ad  avviso  di  questo  giudice, la piena individuazione
della ragione giustificativa dei vari principi sopra illustrati.
    Secondo l'impostazione che sembra preferibile occorre distinguere
la  ratio  che  sorregge il principio di irretroattivita' delle norme
sfavorevoli   da   quella   che  sorregge  il  diverso  principio  di
retroattivita'  delle nonne favorevoli, piuttosto che riferirsi ad un
generico  ed  indistinto  favor  libertatis,. Il fondamento del primo
infatti   va   rinvenuto   sul   piano   politico   garantista  ossia
nell'esigenza  di  tutelare  il  cittadino nei confronti di possibili
abusi del potere legislativo, individuando uno dei momenti essenziali
caratterizzanti  il  principio  di legalita', insieme al principio di
tassativita'  e di divieto di analogia in malam parte, posto a tutela
contro  possibili abusi del potere giudiziario, nonche' del principio
della  riserva  assoluta  di  legge,  posto a tutela contro possibili
abusi  del  potere esecutivo. Viceversa il fondamento della regola di
retroattivita'   delle   norme   favorevoli  andrebbe  ravvisato  nel
principio  di  uguaglianza  (art. 3  cost.),  sotto  il profilo della
parita' sostanziale di trattamento.
    Una  simile impostazione sembra preferibile, perche', da un lato,
meglio  giustifica la diversa portata dei due principi e, dall'altro,
lascia  impregiudicato  il  problema  della  costituzionalita'  delle
disparita'  di  trattamento  conseguenti  ai  singoli  limiti  e alle
deroghe alla retroattivita' delle norme favorevoli, in riferimento al
generale   principio   di   ragionevolezza  delle  leggi,  desumibile
dall'art. 3 cost.
    Se  si  pone  tuttavia  mente  al  fatto  che  in  diritto penale
l'esigenza  di parita' sostanziale di trattamento, assume una valenza
ed  un  significato  tutto particolare, venendo ad incidere su beni e
diritti  fondamentali della persona quali la liberta' (art. 13 Cost.)
e  la  dignita' personale (art. 2 Cost.), si deve anche giungere alla
conclusione  che  il  criterio  di "ragionevolezza" delle leggi quale
limite   per  il  legislatore  deve  necessariamente  ritenersi  piu'
rigoroso  rispetto  che  ad altri settori dell'ordinamento. Da questo
punto  di vista il principio di retroattivita' della norma favorevole
puo'  ritenersi  "indirettamente"  costituzionalizzato, nel senso che
deroghe  ad  esso  possono ritenersi ammissibili solo se ragionevoli,
tenendo tuttavia presente il rango primario degli interessi sui quali
vengono ad incidere.
    Una  simile  conclusione e' avvalorata dal rilievo che l'esigenza
di  parita'  sostanziale  di  trattamento  non puo' essere apprezzata
disgiuntamente  al  principio di offensivita' (art. 25, secondo comma
Cost.), da un lato, e di proporzione dall'altro (art. 27, terzo comma
Cost.). E' evidente infatti che accogliere il principio d'uguaglianza
di  trattamento  in rapporto alla mutata considerazione in termini di
inoffensivita'  (abolitio  criminis)  o  minore offensivita' (art. 2,
terzo  comma  c.p.)  del  fatto  oggetto dell'intervento legislativo,
significa  aderire  ad  un  modello  di  diritto  penale  ispirato al
principio   di  materialita',  che  e'  accolto  dalla  Costituzione.
Viceversa   ricollegare  la  sanzione  alla  valutazione  legislativa
vigente  al  momento della commissione del fatto significa attribuire
rilevanza  decisiva  non  gia' all'oggettiva valutazione legislativa,
bensi'  all'elemento della soggettiva disobbedienza o infedelta' alla
legge.
    Va inoltre osservato che la ratio sottesa al limite del giudicato
posto   dall'art. 2,  terzo  comma  c.p.  e'  eminentemente  pratica,
connessa  cioe'  all'esigenza  di  economia  processuale d'evitare un
nuovo  giudizio  ad  ogni  sopravvenire  di  modifiche  normative. Un
fondamento   certamente   meno   "alto"  ed  importante  rispetto  al
fondamento  alla  regola della retroattivita' della norma favorevole,
cosi'  come sopra si e' individuato. Fondamento inoltre che lo stesso
legislatore  non  ha ritenuto sufficiente per limitare l'applicazione
retroattiva  della  norma favorevole in caso di abolitio criminis. Da
questo  punto  di  vista  il  limite in parola rischia di manifestare
un'intrinseca irragionevolezza sia in rapporto alla diversa regola di
cui al secondo comma dell'art. 2, secondo comma c.p., sia all'interno
dei  casi  di  mero  intervento modificativo, in senso favorevole, da
parte  del  legislatore.  Dal  primo  punto di vista potrebbe infatti
mettersi  in  discussione la ragionevolezza di una diversa disciplina
tra  abolitio  criminis e mera modifica della disciplina legislativa,
almeno  nei  casi  in  cui quest'ultima pone in discussione, come nel
caso  di  specie, non solo il quantum della sanzione ma lo stesso an,
mediante  la previsione di una condizione di procedibilita' prima non
richiesta. Dal secondo punto di vista la disciplina denunciata appare
difficilmente  armonizzabile col principio di parita' di trattamento,
ove si consideri che legittima effetti sanzionatori diversi per fatti
identici  commessi da due soggetti nel medesimo tempo, solo a ragione
del  diverso  momento  in  cui  interviene  il giudicato, momento che
appare  essere  un  mero  accidente,  dovuto  ad  elementi  del tutto
causali,   spesso   condizionati   dal   concreto   uso   del  potere
discrezionale  del  p.m.  nella scelta dei concreti modi di esercizio
dell'azione  penale,  che  e'  obbligatoria  (si  pensi, ad es., alla
scelta  del  rito  direttissimo). Da questo punto di vista non sembra
che  il  giudicato comporti una sufficiente differenziazione dei casi
posti  a  raffronto  tale da giustificare questa conclusione, appunto
perche'  cio' che rileva, in riferimento alla parita' di trattamento,
e'  il  rapporto tra il singolo cittadino ed il potere punitivo dello
Stato,  in relazione alla mutata considerazione legislativa del fatto
commesso, mentre le esigenze pratiche sottese al limite del giudicato
non trovano diretto riscontro. Pertanto mentre un diverso trattamento
potrebbe trovare giustificazione nel caso in cui i due soggetti hanno
commesso  il  fatto  in  tempi diversi, rispetto all'intervento della
modifica  legislativa,  la  stessa  conclusione  non  dovrebbe essere
ammessa  in  dipendenza  di un fattore del tutto casuale e totalmente
indipendente  dalla  condotta  e  dalla  volonta'  del  reo,  qual e'
l'intervento  del  giudicato.  Cio'  perlomeno  nel  caso  in  cui la
modifica  legislativa non incida solo su aspetti secondari o solo sui
limiti  edittali  di  pena, ma comporti, come nel caso di specie, una
modifica  del  regime di procedibilita' e della stessa specie di pena
irrogabile,  determinando  il passaggio da una pena obbligatoriamente
detentiva  ad  una  pena  pecuniaria, sia pure in via alternativa. In
simili casi infatti vengono in considerazione anche: l'art. 13 Cost.,
in  riferimento al bene supremo della liberta' personale che verrebbe
sacrificato  anche  in  presenza  di un fatto che, alla stregua della
nuova  valutazione  legislativa,  potrebbe  essere punito con la mera
multa; l'art. 25, secondo comma Cost., in riferimento al principio di
offensivita'  ed in relazione al principio di proporzione tra fatto e
pena  di  cui  all'art. 27, terzo comma Cost., dal momento che a quel
fatto  verrebbe  collegata  una  pena  non  piu'  corrispondente alla
valutazione di offensivita' compiuta dal legislatore.
    D'altra   parte   assumere  quale  ragione  giustificativa  della
disciplina  denunziata  l'esigenza  di  salvaguardare la certezza dei
rapporti  ormai esauriti, non tiene adeguatamente conto del fatto che
la  vicenda  della  sanzione  penale, specie se detentiva, non sembra
possa  ritenersi  esaurita  col semplice intervento del giudicato. Si
pensi  infatti  agli  interventi  sulla pena praticabili mediante gli
strumenti   della   sorveglianza   o   alla   possibile  applicazione
dell'amnistia   o   dell'indulto  in  corso  di  esecuzione  a  norma
dell'art. 672  c.p.p.  A  rigore  anzi neppure l'effettiva espiazione
della  pena  consente  di  ritenere  del  tutto  esaurita la relativa
vicenda,  dal  momento  che  la  revoca  della  sentenza  di condanna
potrebbe  ancora determinare gli effetti di cui all'art. 657, secondo
comma,  c.p.p.  Si  consideri  infine  il  dato  secondo il quale nel
moderno diritto penale l'intangibilita' del giudicato e' generalmente
assunta  non  tanto  a  tutela  di una astratta certezza dei rapporti
giuridici,   quanto  piuttosto  a  tutela  della  liberta'  personale
dell'interessato,  in  relazione  al  divieto  del  ne  bis  in  idem
(art. 649 c.p.p.).
    L'irragionevolezza  della  disciplina  denunziata potrebbe infine
essere   argomentata   anche   dai   notevoli  poteri  di  intervento
riconosciuti  al  giudice  dell'esecuzione  dal nuovo codice di rito,
ignoti   al   precedente  sistema  processuale,  coinvolgenti  spesso
valutazioni   anche   di   merito.   Si  pensi  alla  disciplina  del
riconoscimento   della  continuazione  in  sede  esecutiva  ai  sensi
dell'art. 671  c.p.p.  e  188  disp. att. Si pensi ancora alla stessa
disciplina  della  revoca della sentenza in conseguenza dell'abolitio
criminis  ai  sensi dell'art. 673 c.p.p., che, a ben vedere, comporta
spesso  la  necessita'  di penetranti indagini di merito, soprattutto
nei   casi   in  cui  all'abolizione  del  reato  si  accompagni  una
riformulazione  della  fattispecie,  come  i casi della detenzione di
sostanze  stupefacenti  per  uso  personale  e dell'abuso di ufficio,
hanno  esaurientemente  reso  manifesto,  sicche' appare davvero poco
ragionevole,   ed   in   relazione  alla  stessa  ratio  di  economia
processuale  che  lo  sorregge, far permanere il limite del giudicato
proprio  nei  casi  in  cui  la  revoca  o la modifica della condanna
conseguirebbe  in  modo  del  tutto  agevole  ad  un mero giudizio di
determinazione  della  pena,  alla  stregua  della  nuova valutazione
legislativa.
    Un ultimo profilo di possibile illegittimita' costituzionale puo'
essere  indicato.  La  disciplina  in  parola, ricollegando efficacia
dirimente  alla  distinzione  tra  abolitio  criminis  ed  intervento
legislativo  meramente modificativo, potrebbe comportare un possibile
contrasto col principio di determinatezza di cui all'art. 25, secondo
comma  Cost. Infatti non appare azzardato, in relazione alla ratio di
garanzia della liberta', affermare che il principio di determinatezza
sia  riferibile  non  solo  alle  norme  incriminatrici ma a tutte le
fattispecie  che,  in  qualunque  fase  processuale,  condizionano in
concreto  l'esecuzione  di  una sanzione penale, specie se detentiva,
come  appunto accade in tema di successione di leggi penali nel tempo
in  riferimento  alla  revoca  della  condanna  a norma dell'art. 673
c.p.p. Ora sono ben note le difficolta' che, nei casi piu' complessi,
si  incontrano  per  distinguere  i  casi  di vera e propria abolitio
criminis dai casi di intervento meramente modificativo e cio' gia' in
via  astratta,  come  e'  reso  palese  dalla proposta da parte della
dottrina di teorie complesse e diversificate (quella della mediazione
del  caso  concreto,  quella  della continuita' del tipo di illecito,
quella  della  contenenza,  ecc. ...), comunque non risolutive e tali
comunque  da rendere spesso necessario un giudizio di valore da parte
dell'interprete.   Viceversa   l'accoglimento   della   questione  di
costituzionalita' in questa sede proposta consentirebbe di svincolare
una  materia  tanto  importante  da  astratte  teorie dogmatiche e da
interpretazioni  opinabili,  ancorandola  ai  concreti  effetti delle
singole  riforme  legislative,  nel senso cioe' che l'art. 673 c.p.p.
dovrebbe  trovare  sempre  applicazione,  con la revoca o la modifica
della condanna, tutte le volte in cui l'applicazione della legge piu'
favorevole   intervenuta   escluda  la  punibilita'  del  fatto,  per
qualsiasi ragione (anche attinenti al regime di procedibilita) ovvero
l'applicazione di una pena detentiva.
    4. a) - I  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 341
c.p.: introduzione.
    Questo  giudice e' ben consapevole che l'art. 341 c.p.. sin dagli
anni  '60,  e'  stato  oggetto  di  cio'  che  efficacemente e' stato
chiamato  un  "attacco  in massa" da parte dei giudici di merito, che
hanno  sollevato  la questione di legittimita' costituzionale sotto i
piu'  disparati  profili, in gran parte coincidenti con quelli che si
andranno  di  seguito  ad evidenziare; e che la Corte costituzionale,
sin  dal  primo  precedente,  risalente ormai a quasi 30 anni or sono
(sentenza  2-19 luglio 1968 n. 109), ha sempre respinto la questione,
sino  all'importante sentenza 25 luglio 1994 n. 341 che ha dichiarato
l'incostituzionalita', con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma
Cost.,  dell'art. 341,  comma  1  c.p., nella parte in cui prevede la
pena di mesi 6 di reclusione come minimo edittale.
    Tuttavia  si  deve  ritenere  non inutile sollevare nuovamente la
questione,  in  riferimento  agli  artt. 1, secondo comma, 3, primo e
secondo  comma,  25,  secondo  comma, 27, terzo comma, 54 e 97, primo
comma  Cost.,  in  ordine  non  solo  ad alcuni aspetti di disciplina
(procedibilita'  e  pena),  ma anche, e soprattutto, alla sussistenza
stessa   del   reato,   cosi'   come   era  strutturato  dalla  norma
incriminatrice    sospetta    e    costantemente    applicato   dalla
giurisprudenza.
    D'altra  parte  sembra  a  questo giudice non manchino importanti
elementi  di novita', sia sul versante delle norme costituzionali, in
parte  gia'  evidenziati dalla sentenza n. 314/1994, sia sul versante
della norma ordinaria sospetta.
    Dal  primo punto di vista viene in considerazione la correlazione
sistematica tra alcuni principi costituzionali fondamentali, principi
dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti tra Stato e
cittadino nonche' alla forma democratica di Stato, oltre al fatto che
nella   giurisprudenza   costituzionale  e'  in  corso  un'importante
rivalutazione  dei  vincoli imposti al legislatore in materia penale.
Ci si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della pena
di  cui  all'art. 27,  terzo  comma Cost., riferita non piu', come in
passato,  alla  sola  fase  esecutiva, ma ritenuta una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, (cfr. la
stessa  sentenza  n. 341/1994  e, per un significativo precedente, la
sentenza 18 luglio 1989 n. 409) con il conseguente riconoscimento del
principio  c.d.  di proporzione tra pena e offesa, non solo sul piano
politico-criminale  ma  anche  su  quello costituzionale e, pertanto,
vincolante   per   il   legislatore.  Attiene  inoltre  alla  recente
valorizzazione  della  riserva  di  legge  in  materia  penale di cui
all'art. 25  secondo  comma  Cost.,  con  riferimento al principio di
determinatezza    (cfr.    sentenze    6 febbraio    1995   n. 34   e
17 ottobre-2 novembre  1996 n. 370) e, piu' in generale, dei principi
di   offensivita',  di  frammentarieta'  e  di  sussidiarieta'  (cfr.
sentenze 23-25 ottobre 1989 n. 487 e 10-11 luglio 1991 n. 333).
    Dal  secondo  punto  di vista si potranno utilizzare non solo gli
spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie e
nuove, della dottrina, nel cui ambito il dibattito sulla legittimita'
della  sussistenza  stessa  della  fattispecie,  prima  ancora  della
relativa   disciplina   sanzionatoria,   e'   piu'   che  mai  aperto
all'indomani della sentenza n. 341/1994.
    4.  b) - Segue:  elementi  costitutivi  del  reato di oltraggio a
pubblico ufficiale e, rapporti col reato di ingiuria.
    Gli  elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p., sul
piano  oggettivo,  sono:  1)  l'offesa,  resa  con  qualsiasi  mezzo,
all'onore  o  al  prestigio  del  soggetto  passivo;  2) lo status di
pubblico  ufficiale del soggetto passivo; 3) la presenza del soggetto
passivo;  4)  il  legame  tra l'offesa e le pubbliche funzioni che si
risolve,  in via alternativa, o in un nesso di causalita' psicologica
(a  causa delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere rivolta
propter officium ossia a motivo delle funzioni esplicate dal pubblico
ufficiale  e, in tal caso, il reato puo' essere integrato anche se il
soggetto  passivo, al momento del fatto, non rivesta piu' la qualita'
di  pubblico  ufficiale  a  norma dell'art. 360 c.p. (Cass. 2 ottobre
1985  n. 8454),  oppure  in  un  nesso  cronologico di contestualita'
(nell'esercizio  delle  funzioni), nel senso che l'offesa deve essere
arrecata, anche per motivi puramente personali, ma nel momento in cui
il pubblico ufficiale sta' esercitando le proprie funzioni.
    Per   onore  s'intende  l'insieme  delle  qualita'  morali  della
persona,  quale bene strettamente personale, componente essenziale di
quella  dignita'  sociale  cui  fa  riferimento  l'art. 3 Cost. e, in
quanto  tale,  annoverabile  nei diritti inviolabili dell'uomo di cui
all'art. 2  Cost.,  mentre  il  prestigio  viene  inteso  come quella
particolare  forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto
passivo,  e  attinente alla dignita' e al rispetto da cui la pubblica
funzione  deve  essere circondata (cfr., in particolare, la relazione
al  codice  penale,  140).  L'offesa  a  tali  beni  va apprezzata in
relazione  a  parametri socio-culturali di valutazione che consentono
di ritenere come oltraggiosa oppure no quella data espressione o quel
dato gesto in rapporto con tutte le circostanze del caso concreto. Il
particolare status che deve rivestire il soggetto passivo e' definito
dall'art. 357   c.p.,   mentre  il  requisito  della  presenza  viene
generalmente inteso nel senso che la condotta incriminata deve essere
compiuta  in  una  situazione  spaziale tale da rendere semplicemente
possibile  la  percezione dell'offesa al destinatario della medesima.
Infine   il   requisito   individuato   dall'espressione  a  causa  o
nell'esercizio  delle  sua  funzioni,  che  nella struttura del reato
dovrebbe   svolgere   la   funzione   di  ricondurre  la  fattispecie
nell'ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, si risolve,
nel  primo  caso,  in  una caratterizzazione eminentemente soggettiva
della  condotta,  essendo  in sostanza elevato un semplice movente ad
elemento  di  tipicita',  e,  nel  secondo  caso,  in  una  modalita'
spazio-temporale  dell'azione e dunque in un elemento intrinsecamente
oggettivo.
    Poiche',  come  si  e'  visto, il prestigio viene considerato una
particolare  forma  di  decoro  collegata  allo  status soggettivo di
pubblico  ufficiale,  si  deve ritenere che la condotta tipica sia la
medesima rispetto a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.). Gli
elementi  differenziali,  in  funzione  specializzante,  tra  le  due
fattispecie,  si  esauriscono  nello  status  del  soggetto passivo e
nell'elemento  espresso con la formula a causa o nell'esercizio delle
sue  funzioni.  Sennonche'  se  a base del confronto si assume non il
reato  di ingiuria nella forma semplice ma il reato di ingiuria nella
forma  aggravata  ai  sensi  dell'art. 61  n. 10  c.p., non si potra'
negare  una  perfetta  identita' di struttura tra le due fattispecie,
una  volta  ammessa,  secondo  l'opinione comune sia in dottrina che,
ormai,  in  giurisprudenza, l'identita' tra la formula nell'esercizio
delle funzioni, utilizzata dall'art. 341 c.c., e la formula nell'atto
...  dell'adempimento  delle  funzioni  di cui all'art. 61 n. 10 c.p.
Infatti  nel momento in cui la giurisprudenza e' venuta giustamente a
respingere   l'opinione   secondo   la  quale  devono  essere  sempre
considerati  nell'esercizio  delle  proprie  funzioni  quei  pubblici
ufficiali  che,  essendo investiti di compiti di pubblica sicurezza o
di  polizia  giudiziaria, sono in servizio permanente, per accogliere
l'opposta  opinione secondo la quale servizio permanente non equivale
ad  effettivo  esercizio  della funzione, sicche' finche' il pubblico
ufficiale  in  concreto  non  svolga  la  propria  funzione  non puo'
ritenersi integrato il reato di cui all'art. 341 c.p. (Cass. 21 marzo
1997  n. 2727  e  Cass.  19  febbraio  1996  n. 5027),  viene meno la
possibilita'  stessa  di  tracciare  una  differenziazione tra le due
formule.
    Cio'  non  toglie  che tra le due fattispecie vi fossero profonde
differenze   di   disciplina,   non   solo   in   ordine  all'aspetto
sanzionatorio  (l'ingiuria  e' punibile con la pena fino a un anno di
reclusione  o  della multa fino a lire due milioni, aumentata sino ad
un  terzo  per  l'effetto  dell'aggravante, effetto che peraltro puo'
essere  posto  nel nulla in ragione del giudizio di bilanciamento con
le  circostanze  attenuanti;  l'oltraggio era punito con la sola pena
della  reclusione  sino  a  2  anni),  ma  anche con riferimento alla
procedibilita'  (a  querela  di  parte per l'ingiuria e d'ufficio per
l'oltraggio)  e  dell'estensione  delle  condotte  punibili, sotto il
profilo  delle  cause  di  giustificazione  e/o  di  esclusione della
punibilita',   essendo  per  costante  giurisprudenza,  inapplicabili
all'oltraggio,  neppure  in via analogica, la c.d. exceptio veritatis
(art. 596  c.p.) e gli istituti della provocazione e della ritorsione
(art. 599  c.p.).  Ed  era proprio questa differenza cosi' marcata di
disciplina,  in  mancanza  di  differenze strutturali, a destare seri
dubbi  di legittimita' costituzionale soprattutto in riferimento agli
artt. 3 e 27, terzo comma della Costituzione.
    Per  il momento e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed
estensione  della  fattispecie cosi' come era strutturata dalla norma
incriminatrice,  che  la  rendeva  capace di abbracciare un numero di
condotte  veramente  considerevole.  Cio'  era  dovuto in primo luogo
all'estrema  ampiezza  della  formula linguistica utilizzata, diretta
conseguenza   del   fatto   che   il  legislatore  del  1930  si  era
dichiaratamente  prefissato  di  rendere  in  materia piu' completa e
rigorosa  la  tutela  giuridica  degli  organi  e  dell'attivita' dei
pubblici  poteri  (Relazione,  141), ma non vanno sottovalutati anche
gli  effetti  di  fattori  esterni  alla  norma medesima. Si pensi al
crescere  della  presenza dello Stato nei piu' disparati settori e al
conseguente  riconoscimento  della  qualita'  di pubblico ufficiale a
categorie sempre piu' vaste e variegate di soggetti.
    L'ampiezza  della fattispecie rischia di entrare in conflitto con
l'art. 25,  secondo  comma, Cost., sotto il profilo della mancanza di
sufficiente   determinatezza.   Risulta   tuttavia   imprescindibile,
affrontare  con  cura  il  tema  del  bene giuridico protetto e della
finalita'  di  tutela,  perche'  il  deficit  di  determinatezza  per
eccessiva  onnicomprensivita'  della  realta' rappresentata (cosi' la
circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri 5 febbraio 1986
nella  Gazzetta  Ufficiale  18  marzo  1986  n. 64,  18), attiene non
semplicemente al dato, in se' neutro, dell'eccessiva estensione della
fattispecie  in quanto tale, ma piuttosto alla selezione, in un'unica
fattispecie,  di  condotte  tra  loro  diverse ed eterogenee quanto a
disvalore.
    4. c) - Individuazione del bene giuridico protetto.
    Venendo  pertanto all'individuazione del bene giuridico protetto,
si  puo'  in prima battuta affermare con certezza che l'art. 341 c.p.
tutelava anche il bene personale dell'onore e del prestigio del p.u.,
come  persona fisica, che in nulla si distingue dal bene dell'onore e
del  decoro  tutelato dall'art. 594 c.p. Cio' e' confermato e provato
dall'identita'  strutturale  tra il reato di oltraggio ed il reato di
ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p.
    Sennonche'   costituisce  opinione  comune  che  l'art. 341  c.p.
proteggesse  un ulteriore bene giuridico, a piu' marcata connotazione
pubblicistica,  generalmente  individuato nel prestigio (non del p.u.
come  persona  fisica ma) della pubblica amministrazione e, talvolta,
addirittura  nel principio del buon andamento dell'amministrazione di
cui  all'art. 97  Cost.,  cosi' venendo a caratterizzarsi come tipico
reato  plurioffensivo.  La  stessa  Corte  costituzionale ha, fin dal
primo  precedente, aderito a quest'impostazione, riferendosi tuttavia
talvolta  al prestigio della p.a. puramente e semplicemente (sentenza
n. 109/68),  tal  altra  ancora al prestigio della p.a. ma in ragione
della   finalita'   del   buon   andamento   amministrativo  prevista
dall'art. 97  Cost,  coinvolgente  non  solo  la  fase  organizzativa
iniziale  ma anche il complessivo funzionamento (sentenza 2-14 aprile
1980  n. 51  e,  sostanzialmente, ordinanza 10-17 marzo 1988 n. 323).
Persino  la sentenza di accoglimento n. 341/1994 sottolineava, in via
generale,  questo  aspetto  osservando  come la plurioffensivita' del
reato  di  oltraggio  rende  certamente  ragionevole un intrattamento
sanzionatorio   piu'  grave  di  quello  riservato  all'ingiuria,  in
relazione  alla  protezione  di  un interesse che supera quello della
persona  fisica  e  investe  il  prestigio e quindi il buon andamento
della pubblica amministrazione.
    Affermazioni  in  tutto  analoghe si rinvengono in dottrina ed in
giurisprudenza, ove spesso compaiono locuzioni ancora piu' generiche,
quali il "regolare" o "sereno" esercizio delle pubbliche funzioni. Si
deve  tuttavia  osservare  che  si tratta normalmente di affermazioni
apodittiche,  assunte  quali postulati e come tali non bisognevoli di
argomentazione  o  dimostrazione  e, in particolare, senza che vi sia
mai,  o  quasi,  alcun  approfondimento  ne'  in  relazione alla piu'
specifica  determinazione  del  bene  protetto, atteso che gli stessi
beni del "prestigio" o del "buon andamento" della p.a. possono essere
intesi  in modo assai vario, ne' in relazione al tipo di raccordo tra
il  bene  che si assume protetto e la tecnica di strutturazione della
fattispecie.  Ma,  come  e'  noto,  la  valutazione della rilevanza e
pregnanza  dell'offesa  insita  nel  reato  comporta la necessita' di
considerare  non solo e semplicemente il rango del bene giuridico che
si  assume  offeso  ma  anche il grado di offesa (che decresce quanto
piu'   ci  si  allontani  dallo  stadio  dell'effettiva  lesione  per
avvicinarsi allo stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia
delle  forme  di  aggressione indicate dalla norma incriminatrice. Al
riguardo si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341 c.p., si
sia  verificato un singolare, ma per certi versi assai significativo,
fenomeno  di  commistione  e/o  di  confusione, tra il piano del bene
giuridico   protetto  ed  il  piano,  che  dovrebbe  invece  rimanere
rigorosamente  distinto, della ratio o scopo politico-criminale della
norma.  Va  allora  ribadito  che  puo'  essere individuato come bene
giuridico  protetto  solo  quello  immancabilmente  offeso  dal fatto
tipico     selezionato     o,     comunque,     quello     desumibile
dall'interpretazione   dei   singoli  elementi  del  reato  nei  loro
reciproci  rapporti.  Cio'  del resto e' confermato dall'osservazione
che  il  concetto di bene giuridico puo' svolgere la funzione che gli
e'  propria in riferimento alla struttura dell'illecito penale solo a
condizione che esso sia sufficientemente "afferrabile" e determinato,
anche in relazione al principio di determinatezza di cui all'art. 25,
secondo comma Cost.
    Diverso  e'  invece  il  concetto  di scopo o fine che, sul piano
politico criminale, ci si propone di perseguire con l'incriminazione,
trattandosi  di  un  elemento esterno alla norma, desumibile anche da
considerazioni di ordine generale, spesso condizionate da contingenze
sociali,  economiche,  culturali e storiche. Si tratta di un concetto
certamente  molto  importante, anche sul piano interpretativo, ma che
non implica una cosi' stretta necessita' di rinvenire in ogni singola
condotta punita il fine perseguito sul piano generale.
    4.   d) - (segue)   Analisi   storica  della  norma:  dal  codice
Zanardelli al codice Rocco.
    Al fine di verificare criticamente la fondatezza della tesi della
plurioffensivita'  del  reato  di oltraggio a p.u. puo' tornare utile
una  breve  analisi  storica  della norma, giacche' e' innegabile una
connotazione fortemente storicizzata della fattispecie in esame (cfr.
sentenza  28  giugno-12  luglio  1995  n. 313).  In proposito fin dal
principio  la  Corte  costituzionale,  nelle  molteplici  pronunce di
rigetto  o  di manifesta infondatezza, non ha pur tuttavia mancato di
rimarcare  come  la disciplina legislativa dell'oltraggio, cosi' come
delineata  dal  codice Rocco troppo risente dell'ideologia del regime
dal quale ebbe origine, e di ammettere che rimane sicuramente, specie
in  talune  ipotesi  di fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione
comminata   e   disvalore   del  fatto,  espressamente  invitando  il
legislatore a adeguare il minimo edittale e lo stesso disvalore della
fattispecie,   alla   mutata   coscienza   sociale  ed  allo  spirito
informatore  della  Costituzione  (cfr., tra le tante, ordinanze 6-16
marzo  1989  n. 127  e  10-17  marzo  1988 n. 323). Nella sentenza di
accoglimento  n. 341/1994,  poi,  oltre a precisare che la concezione
autoritaria   e   sacrale  dei  rapporti  tra  pubblici  ufficiali  e
cittadini,  tipica  del regime totalitario di cui l'art. 341 c.p. era
espressione,  e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla
Costituzione   repubblicana,   per   la   quale   il   rapporto   tra
amministrazione  e  societa'  non  e'  un  rapporto di imperio, ma un
rapporto  strumentale  alla  cura degli interessi di quest'ultima, la
Corte  si  spinge  sino  al  punto  di  ritenere  che  l'inerzia  del
legislatore    avesse    superato    ogni   limite   di   ragionevole
tollerabilita'.
    Non abbisogna pertanto di ulteriori dimostrazioni il fatto che il
reato  di  oltraggio  fosse  inteso dal legislatore del 1930 come una
salvaguardia  dell'autorita'  statale  in  quanto  tale,  finendo per
rappresentare  una  super-tutela accordata da uno Stato autoritario a
se'  stesso  e  riallacciandosi  alle  concezioni proprie degli Stati
teocratici  ed  assolutistici,  alla concezione della sovranita' come
sacra  ed  inviolabile  nella  sua  diretta  emanazione  divina,  dei
funzionari  come  diretta  emanazione  del  sovrano, dei singoli come
sudditi e non come cittadini.
    Del resto cio' e' sufficientemente testimoniato dal raffronto con
la  disciplina della materia contenuta nel codice Zanardelli del 1889
(artt. 194-199).  Infatti  il  codice Rocco non si e' limitato ad una
modifica  della  disciplina sanzionatoria, peraltro assai vistosa (il
codice Zanardelli puniva il reato base con la pena della reclusione o
della  multa),  ma ha anche modificato strutturalmente la fattispecie
estendendone il campo di applicazione, mediante: l'eliminazione della
scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico
ufficiale (subito reintrodotta all'indomani della caduta del regime);
l'unificazione  delle  ipotesi  di  offesa  arrecata  a  causa  delle
funzioni  con  quelle  arrecate nell'esercizio delle funzioni (che il
codice  Zanardelli  puniva  in  modo  attenuato  rispetto all'altra);
l'eliminazione,  per  quest'ultima  modalita'  d'offesa,  del termine
pubblico  (l'art. 196  del  codice  Zanardelli prevedeva che l'offesa
fosse  arrecata  nell'atto  dell'esercizio  pubblico delle funzioni);
l'estensione  della  tutela  anche ai semplici pubblici impiegati che
prestino  un  pubblico servizio (art. 344 c.p.). Oltre a cio' va pure
considerato  che,  a  causa  della minore ingerenza dello Stato nella
societa',   tipica   degli   ordinamenti   di   impronta   "liberale"
dell'ottocento,  la  qualifica  di  pubblico  ufficiale, ai tempi del
codice   Zanardelli,   era  riferibile  ad  una  cerchia  di  persone
infinitamente piu' ristretta.
    Peraltro  una  piu'  attenta ricostruzione della volonta' storica
del  legislatore  fascista  evidenzia  come il bene oggetto di tutela
fosse  puramente  e semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo
p.u.,  mentre  il  principio di autorita' fosse piuttosto riferito al
piano  della  ratio  o  scopo  politico-criminale  della  tutela che,
nell'ambito   dell'ideologia   del  regime,  consentiva  di  ritenere
largamente  giustificata  una  differenziata  e  piu' rigorosa tutela
rispetto  a quella accordata ai privati. Cio' emerge con chiarezza da
quei  passi della relazione ministeriale in cui il prestigio del p.u.
viene  considerato  quale particolare forma di decoro di chi esercita
la  pubblica  funzione  (Relazione,  140);  un  bene  pertanto che e'
proprio  del  pubblico  ufficiale  sebbene  faccia  riferimento  alla
dignita'  della funzione. In definitiva si riteneva che l'onore ed il
prestigio del singolo p.u. meritassero una speciale e particolarmente
intensa tutela in ragione del rispetto dovuto all'autorita', rispetto
che consentiva di qualificare particolarmente quel bene, superando la
sua originaria vocazione "personalistica". In tal senso e' anche quel
passo  della  relazione  che,  dopo  aver  precisato che il prestigio
costituisce una particolare forma di decoro, lo definisce come quella
speciale  forza  o  influenza  che  deriva  alla  persona dall'altrui
riconoscimento  dell'autorita'  e  della  dignita'  di cui la persona
stessa  e'  rivestita (Relazione, 140). Ma cio' che piu' conta e' che
questa  impostazione  ha  finito per condizionare in modo evidente la
stessa  formulazione  letterale  della  norma sospetta e la struttura
della  fattispecie,  essendo  l'onore  ed  il prestigio la cui offesa
integrava  il  reato di cui all'art. 341 c.p. riferiti non alla p.a.,
come  avviene  ad  es. nell'art. 342 c.p., bensi' al singolo p.u. Non
solo, ma la mancata previsione di un autonomo reato di diffamazione a
pubblico   ufficiale,   pur  originariamente  previsto  nel  progetto
preliminare  (all'art. 348  c.p.),  fu  motivata proprio in relazione
alla  mancanza,  in  questo  caso,  di  una  dimensione pubblicistica
dell'offesa  ed  e'  evidente  che  cio'  e'  legato alla ratio della
tutela,  ossia  al  principio d'autorita' e al rapporto d'imperio tra
Stato  e  cittadini,  nel senso cioe' che mentre l'offesa arrecata in
presenza del p.u. si considerava manifestazione di disobbedienza e di
ribellione  all'autorita',  l'offesa arrecata in assenza del p.u. era
considerata   meno   grave  perche'  coinvolgente  esclusivamente  la
dimensione,  per  cosi'  dire, "privatistica" del bene dell'onore del
p.u.   e  pertanto  priva  di  quel  rilievo  pubblicistico  tale  da
giustificare  l'inserimento  nei reati contro la p.a. (esplicitamente
relazione, 143).
    Sennonche' al di la' delle originarie intenzioni del legislatore,
ben  presto  la  dottrina  allora  dominante,  seguita  subito  dalla
giurisprudenza,  sposto'  l'oggetto della tutela dall'onore del p.u.,
sia  pure  particolarmente  qualificato, all'interesse concernente il
normale  funzionamento  e  il  prestigio  della  p.a.  in senso lato.
Tuttavia  tali  beni  erano  intesi  in  modo assai diverso da quello
imposto  da  una  concezione  "democratica"  dei rapporti tra Stato e
cittadino.  Infatti,  dall'ovvia  osservazione che le istituzioni non
possono  che  agire per mezzo di organi e questi per mezzo di persone
fisiche  e  dall'  impropria  utilizzazione,  in  materia penale, del
rapporto  organico,  si faceva discendere la conclusione per la quale
e'  manifesto  che  le  offese  arrecate  a codeste persone (ossia ai
pubblici  ufficiali),  ...  risalgono  all'organo al quale le persone
stesse  appartengono,  e dall'organo all'ente. Finendo per concludere
che  la  protezione  penale,  quindi, e' stabilita nell'interesse del
rispetto  dovuto alla pubblica funzione o al pubblico servizio, e non
di  quello  dovuto  alla  persona  individuale del pubblico ufficiale
(...), che riceve protezione soltanto riflessa.
    Al riguardo si e' acutamente osservato come una simile operazione
comporti  un  indebito  processo  di  identificazione dell'oggetto di
tutela,   erroneamente   individuato  nel  prestigio  della  pubblica
amministrazione, con la ratio politica della disposizione colta nella
sua  estensione  massima,  finendo  con  l'autorizzare la conclusione
secondo  la  quale  qualunque  offesa  arrecata  contro  un  pubblico
ufficiale,  in  sua  presenza  e  a  causa o nell'esercizio delle sue
funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in quanto tale.
Questa  critica va condivisa perche' parlare di normale funzionamento
e  prestigio  della  p.a.,  incentrando tali beni sul rispetto dovuto
alle pubbliche funzioni, significa in sostanza assumere ad oggetto di
tutela il dovuto ossequio e, dunque, lo stesso principio di autorita'
nei rapporti tra Stato e privati.
    Comunque  sia,  una  volta accolto il sistema di "valori" proprio
del  regime che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva di
una  sua  intima  coerenza  ed una certa precisione tecnica. Infatti,
alla stregua della scelta di politica criminale secondo la quale alle
pubbliche  istituzioni  e'  dovuto  sempre  e  comunque  obbedienza e
rispetto  e  che  anzi  costituisce  un  "valore"  fondamentale, come
tipicamente  accade per tutti i regimi totalitari, la "fedelta'" allo
Stato,  diventa  del tutto comprensibile punire, ed in modo rigoroso,
ogni  offesa  all'onore  del  pubblico ufficiale, in sua presenza e a
causa  o  nell'esercizio  delle sue funzioni, perche' si tratta di un
comportamento  di  aperta ribellione all'autorita' costituita, mentre
il  profilo  della  tutela  del bene personale dell'onore del singolo
pubblico ufficiale passa decisamente in seconda linea.
    4.    e)  - (segue)    Le   interpretazioni   "costituzionalmente
orientate":  la  tesi  che  ravvisa  il  bene  giuridico protetto nel
prestigio della p. a. - critica.
    Ma  i  problemi  veri,  in termini di coerenza della fattispecie,
nascono  dalla  doverosa  presa  d'atto  che  sia  il  bene giuridico
(prestigio  del  pubblico  ufficiale  particolarmente  qualificato in
ragione  della  titolarita'  di  funzioni  pubbliche) che la ratio di
tutela   (principio   di   autorita),   cosi'   come  originariamente
prospettati erano non solo estranei al sistema di valori, si potrebbe
dire  allo  "spirito",  della Costituzione repubblicana, ma esprimono
scelte  di  fondo  addirittura  opposte.  Da  cio'  trae  origine  la
necessita'   di   rinvenire,   alla   stregua  di  un'interpretazione
"costituzionalmente  orientata"  della  norma  sospetta,  nuovi  beni
giuridici  da  assumere  ad  oggetto  della  tutela che siano, se non
addirittura  costituzionalmente  rilevanti,  almeno non incompatibili
con  la  Costituzione.  E'  in questo contesto che quasi sempre viene
individuato  come oggetto di tutela del reato di oltraggio, ulteriore
rispetto all'onore del singolo p.u., il bene del prestigio della p.a.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di un bene che soffre di una scarsa
afferrabilita' e di una persistente genericita'.
    Se  inteso  nel  senso sopra evidenziato, ossia in stretto legame
col  "rispetto"  o l'ossequio dovuto ai pubblici poteri, risolvendosi
in  sostanza  nel  principio  di autorita', deve certamente ritenersi
incompatibile  con  la Costituzione, come si avra' modo di dimostrare
in seguito.
    Diverso  e'  invece  il  discorso  se  viene  inteso come stima o
reputazione nella comunita' degli organi e dell'attivita' della p.a.,
perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua come suo
fine  fondamentale  "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione  politica, economica e sociale del Paese" (art. 3,
secondo  comma  Cost.),  fondato  sul principio di parita' tra p.a. e
cittadini  e  su  di  un  potere individuale di "partecipazione" alle
attivita'  burocratiche,  la  "fiducia"  di  cui  gode  la p.a. nella
comunita', sia pure non direttamente prevista dalla Costituzione, non
appare  affatto  sfornita  di  quella  pregnanza  ed  importanza  che
giustifica l'intervento della tutela penalistica. Ed anzi si potrebbe
persino  individuare  un  certo  collegamento  tra  questo bene ed il
principio  del  buon  andamento  dell'amministrazione,  perche' in un
simile   "modello"   di   p.a.  e'  evidente  che  la  fiducia  e  la
collaborazione  del  privato  alle istituzioni agevola lo svolgimento
delle funzioni pubbliche.
    Un  simile  collegamento  non e' sfuggito a quella giurisprudenza
che costituiva l'avamposto piu' avanzato del tentativo di armonizzare
la fattispecie con i principi costituzionali. Si e' infatti osservato
che  -  l'interesse  tutelato  dalla norma in esame (...) deve essere
riferito  alla sfera di funzionalita' pubblica, che trova esposizione
a pericolo ove non garantita anche da offese alla sua credibilita' ed
affidabilita'  presso  la  collettivita'.  In  tal  senso l'offesa al
prestigio  assurge  ad esposizione a pericolo di attributi che devono
accompagnare  l'azione  della  pubblica  amministrazione e quindi dei
soggetti preposti o componenti dei suoi uffici, ed il cui pregiudizio
potrebbe  risultare  ostativo al raggiungimento delle finalita' poste
dalla  legge,  od  all'efficacia  dell'azione pubblica, incidendo sul
consenso  che  la pubblica amministrazione deve necessariamente avere
presso  la  collettivita'.  -  (Cass., 29 novembre 1995 n. 11579). La
sentenza  citata e' importante per due motivi. In primo luogo perche'
sembra  richiedere, ai fini dell'integrazione del reato, un requisito
ulteriore  rispetto  alla  semplice offesa dell'onore o prestigio del
singolo  p.u.,  individuato  nella  idoneita'  della condotta volta a
procurare  il  pericolo  di  siffatto  pregiudizio.  In secondo luogo
perche' si tratta di una sentenza che conferma un'assoluzione.
    Ma,  a  ben  vedere,  non si trattava di una linea interpretativa
realmente  capace  di  spostare  i  termini  della questione circa la
legittimita'  costituzionale  dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito
dell'idoneita'  della  condotta  ad  esporre  a  pericolo l'efficacia
dell'azione  pubblica,  sotto  il profilo della lesione della fiducia
presso la collettivita', era piu' apparente che reale, perche' inteso
nel senso di escludere condotte che gia' di per se' erano atipiche in
quanto  non  offensive,  alla  stregua  dei parametri socio-culturali
vigenti,  del  bene  dell'onore  e del prestigio del singolo pubblico
ufficiale,  come l'esame del caso di specie dimostra (soggetto che si
limita  a  strappare  il  verbale  di contravvenzione appena elevato,
senza  porre  in  essere  nessun'altra  manifestazione  offensiva  od
irriguardosa;  cfr. infatti gia' Cass. 18 settembre 1986, n. 9532), e
cosi'  smarriva  quel carattere di requisito autonomo della tipicita'
in  funzione selettiva delle condotte "realmente" offensive, che solo
poteva   consentire   di   superare   ogni   dubbio  di  legittimita'
costituzionale.  E' evidente che diverso sarebbe stato il discorso se
quell'elemento  fosse  stato  in  grado  di  sottrarre  dal  campo di
applicazione  dell'art. 341  del  c.p. condotte che indiscutibilmente
offendono  il  bene  personale  dell'onore del pubblico ufficiale, in
quanto  inidonee  a  produrre  un  concreto  pericolo  all'"efficacia
dell'azione amministrativa". Ma fino a questo punto la giurisprudenza
non   si   e'   mai   spinta,   e  giustamente,  perche'  una  simile
interpretazione  si  pone  in evidente contrasto con la lettera della
legge e presuppone giudizi di valore sul piano politico criminale che
non  le competono. In definitiva sembra in questo caso realizzarsi il
rischio   di   tutte   quelle   interpretazioni   "costituzionalmente
orientate"  in  realta' incapaci di incidere sul contenuto precettivo
delle  norme,  e  che  pertanto finiscono col porsi come strumento di
legittimazione    dell'esistente,    in    ipotesi   di   una   norma
incostituzionale,   la   quale   continuera'  ad  avere  la  medesima
applicazione   (in   senso   incostituzionale),   sotto  una  diversa
giustificazione.
    In  realta'  si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto
il  profilo  del  "consenso"  o la "fiducia" presso la collettivita',
possa essere individuato come oggetto di tutela dell'art. 341 del del
c.p.  Infatti una simile impostazione e' smentita dalla struttura del
reato e da decisive implicazioni sistematiche. Sotto il primo profilo
emerge  in  tutta  evidenza  la mancanza tra gli elementi costitutivi
della  fattispecie dell'elemento della comunicazione con piu' persone
o,  perlomeno,  della  presenza di terzi estranei al compimento della
condotta  punita. Sotto il secondo profilo va evidenziata la mancanza
di un autonomo titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale.
    Del  resto  che  dei  termini  della  questione i compilatori del
codice  avessero  una precisa visione, sicche' non ci si deve stupire
della  formulazione della norma, emerge con chiarezza in quella parte
della  relazione  in  cui si spiega che il termine reputazione (usato
dal  codice  Zanardelli, insieme al termine onore e al termine decoro
nell'art. 194) qui non puo' usarsi, sia perche' ad esso e' attribuito
un  significato  specifico  in  materia di diffamazione (offesa fuori
della  presenza),  mentre  per  l'oltraggio  e'  sempre  richiesta la
presenza  dell'offeso,  sia  perche'  il prestigio e' qualche cosa di
diverso  da  quella  stima  nella  capacita'  funzionale del pubblico
ufficiale, alla quale si riferisce la reputazione (140).
    D'altra  parte deve escludersi che si potesse aggirare l'ostacolo
mediante  un'interpretazione  "costituzionalmente  orientata", questa
volta   davvero   in  grado  di  incidere  sul  contenuto  precettivo
dell'art. 341  del  c.p.,  richiedendo  ai fini dell'integrazione del
reato  il  requisito  della  pubblicita'  quale  elemento costitutivo
implicito.  Infatti, se si deve certamente ammettere che l'interprete
sia  tenuto  a  ricostruire i singoli tipi in conformita' ai principi
costituzionali   e,   in   particolare  al  principio  di  necessaria
offensivita',  sicche' dovra' considerare atipici i comportamenti non
offensivi  del  bene protetto, si deve tuttavia ritenere che cio' sia
possibile    solo    rispettando   il   limite   invalicabile   della
compatibilita' con la lettera della legge.
    Nel   caso   di   specie   non  e'  possibile  rinvenire  in  via
interpretativa  all'interno della fattispecie di oltraggio a pubblico
ufficiale   l'elemento  costitutivo  della  pubblicita',  perche'  la
presenza  di  una  o  piu' persone estranee al fatto e' prevista come
circostanza  aggravante  a  norma dell'art. 341 u.c. c.p., ossia come
elemento accidentale del reato, in funzione aggravante, e pertanto si
deve  escludere  ch'esso  possa  essere  attratto  tra  gli  elementi
costitutivi.
    4.  f) - (segue)  La  tesi che ravvisa il bene giuridico protetto
nel  buon  andamento della p.a. - critica. Critiche in parte analoghe
possono   muoversi  alla  tesi  che  ravvisa  direttamente  nel  buon
andamento    dell'amministrazione    il   bene   giuridico   tutelato
dall'art. 341 c.p. Anche questa tesi omette infatti di individuare il
rapporto  tra il bene giuridico che si assume protetto e la struttura
del  reato. D'altra parte, come per il bene del prestigio della p.a.,
vi e' la tendenza a considerare il bene del buon andamento in termini
del  tutto  generici, svincolato dall'idea di efficienza e di massima
aderenza  all'interesse  pubblico  che  gli e' proprio e ricondotto a
formule vaghe quali quella del "regolare funzionamento", dimenticando
che  la funzione del bene giuridico puo' essere effettivamente svolta
solo   in   presenza   di   beni   sufficientemente   determinati  ed
"afferrabili",  rischiando viceversa di smarrirsi in presenza di beni
ad "amplissimo spettro".
    Ora,  e' evidente che il riferimento al bene "buon andamento" non
puo'  essere  concepito  nel  senso  rigoroso  di effettivo intralcio
all'azione  della  p.a.  in concreto svolta, perche' risulterebbe del
tutto incomprensibile la punizione delle offese rivolte a causa delle
funzioni ma non durante l'esercizio di esse. Non a caso la relazione,
per  giustificare la circostanza per la quale i delitti di violenza e
di  resistenza  si  possono commettere contro qualunque incaricato di
pubblico  servizio,  mentre  per  l'art. 344  puo' essere oltraggiato
soltanto  il  pubblico  impiegato  che  presti  un pubblico servizio,
afferma    espressamente   che   l'oltraggio   non   reca   intralcio
all'andamento del servizio.
    Neppure, per le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi
che   ravvisa   un'esposizione   a   pericolo   del   buon  andamento
amministrativo  nella  lesione  del  prestigio  della  p.a.  sotto il
profilo della "fiducia" o stima della p.a, presso la societa'.
    La piu' compiuta elaborazione dottrinale della tesi era piuttosto
fondata,  da  un  lato, sull'estensione massima del concetto di "buon
andamento" fino a comprendere il "normale" e/o "sereno" funzionamento
della   p.a.   e,  dall'altro,  su  di  un'argomentazione  di  natura
psicologistica,  ossia  sulla  considerazione  che le condotte punite
dall'art. 341 c.p. potrebbero determinare un "turbamento psicologico"
nel  pubblico  ufficiale  e che cio' potrebbe a sua volta determinare
un'alterazione  del  suo  processo  decisionale e della stessa azione
amministrativa,  resa  incerta  ed  esitante.  L'art. 341  c.p. cioe'
tutelerebbe    la   stabilita'   emotiva   del   pubblico   ufficiale
nell'esercizio  delle  sue  funzioni  e,  quindi, la sua capacita' di
decidere correttamente secondo l'interesse pubblico.
    Sennonche',  a parte il rilievo che la tesi appariva in contrasto
con   l'opinione   comune   che   considerava  irrilevante,  ai  fini
dell'integrazione  del  reato, che il p.u. si sia in concreto sentito
offeso  dalla condotta oltraggiosa posta in essere (Cass. 11 febbraio
1989,   n. 2027;  Cass.  28  maggio  1985,  n. 5393),  assorbente  e'
l'osservazione   che  in  questo  modo  si  finisce  col  configurare
l'obiettivita'  del  reato  come  il  pericolo  di  un pericolo di un
pericolo.  Infatti va rilevato che l'interpretazione fatta propria da
questa  autorevole  dottrina,  e  seguita  senza  incertezze dal c.d.
diritto  vivente  (Cass.  31  agosto 1994, n. 9417; Cass, 11 novembre
1989,  n. 15559;  Cass.  6  febbraio 1985, n. 1173; Cass, 30 dicembre
1985,  n. 12547),  non richiede, ai fini dell'integrazione del reato,
l'effettiva   percezione   dell'offesa  da  pane  del  p.u.,  perche'
l'elemento  della  presenza  del  soggetto passivo veniva inteso come
quella   contiguita'   spaziale   tale   da  assicurare  la  semplice
possibilita'  di  percezione.  Ora,  e'  evidente  che in mancanza di
effettiva   percezione,  non  puo'  farsi  questione  di  "turbamento
psicologico"   del  p.u.  Non  solo,  ma  anche  ammessa  l'effettiva
percezione,  non  e'  detto  che  da questa derivi necessariamente il
tanto  temuto  "turbamento  psicologico"  del p.u., perche' questo e'
piuttosto  un  effetto  che  dipende  da  tutta  un  serie di fattori
contingenti  di  natura oggettiva e soggettiva, quali il contesto, la
posizione  sociale  del  soggetto  attivo e passivo, la "pubblicita'"
dell'azione,  la  "sensibilita'"  personale  del  p.u.  e  cosi' via,
sicche'  si  tratterebbe,  anche  in  questo  caso,  di  una semplice
possibilita', un pericolo appunto. Infine non e' affatto detto che il
"turbamento"  del p.u. si traduca in un'alterazione dello svolgimento
delle  pubbliche  funzioni  alle quali e' preposto. Cosi' nel caso di
offese  arrecate  semplicemente  "a  causa  delle  funzioni",  ma non
nell'esercizio  di  esse,  e'  del  tutto  ragionevole pensare che il
suddetto  turbamento  possa  scemare  fino a svanire del tutto con il
trascorrere  del  tempo,  sino  al  momento in cui il p.u. tornera' a
svolgere le sue funzioni. Nel caso di offese arrecate nell'"esercizio
delle  funzioni",  magari  per  motivi  del  tutto  privati,  e'  ben
possibile che nessun nocumento al regolare svolgimento delle funzioni
pubbliche  in  concreto si realizzi, ad es., per la presenza di altri
p.u.  non  coinvolti ed in grado di sostituirsi al collega "turbato".
D'altra parte vi e' almeno una classe di comportamenti, riconducibile
alla  fattispecie  di cui all'art. 341 c.p., in cui non solo un danno
ma neppure un mero pericolo di danno al buon andamento della p.a., e'
escluso   alla   radice,   per  l'impossibilita'  di  ipotizzare  uno
svolgimento  di  pubbliche  funzioni  successivo  al  reato: l'offesa
arrecata  "a causa delle funzioni" ad un soggetto che, al momento del
fatto,  non  possieda  piu' la qualita' di p.u, a norma dell'art. 360
c.p.
    Ora  un  pericolo di un pericolo deve ritenersi un "non pericolo"
e,  come  tale, inconciliabile col principio di offensivita'. Invero,
ai  fini della legittimita' costituzionale delle norme incriminatrici
sotto  il  profilo  del  principio di necessaria offensivita', non e'
affatto  sufficiente  individuare  un bene giuridico di rango tale da
giustificare, in astratto, la tutela penalistica, dovendosi estendere
l'indagine  in  ordine  all'ampiezza  e  all'intensita'  della tutela
medesima  nonche' alla gravita' dell'offesa. Da questo punto di vista
anche  un bene sicuramente primario, quale puo' essere per esempio la
vita,  non riuscirebbe a giustificare, sul piano della compatibilita'
col principio di necessaria offensivita', costituzionalmente imposto,
una  cosi'  spinta  anticipazione  della  tutela  che conducesse alla
punizione  di  atti  meramente  preparatori  o di mera manifestazione
della volonta' o della "tendenza" a commettere un omicidio.
    Oltre  tutto  la  tesi che ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di
pericolo astratto, presunto in via assoluta ed irrimediabile, finisce
col  sollevare  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  forse  anche
maggiori di quelli che pretende aver risolto.
    E'  infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo
di  per  se' incostituzionali, devono tuttavia rispettare determinati
requisiti,  in  relazione  sia  al principio di proporzione (art. 27,
comma   3,  Cost.),  sia  al  principio  di  necessaria  offensivita'
(art. 25,  comma 2, Cost.), sia infine al principio di ragionevolezza
(art. 3  Cost.),  che la stessa Corte costituzionale ha precisato con
grande  efficacia  (cfr.  sentenza 10-11 luglio 1991, n. 333). Devono
infatti  essere  posti  a  tutela  di  beni  di  rango  assolutamente
fondamentale  ed  afferire  a  settori in cui questa anticipazione di
tutela  risulti razionalmente giustificata da particolari esigenze di
prevenzione  (ad es. situazioni di pericolo diffuso incidenti su beni
collettivi come l'ambiente o l'economia pubblica), ed inoltre occorre
che  le  condotte  riconducibili al fatto tipico siano selezionate in
modo pregnante, in modo cioe' che la presunzione assoluta di pericolo
sia  supportata  da  corrette verifiche empiriche, ossia giustificata
dall'id quod plerumque accidit, costituendo altrimenti una scelta del
tutto  irragionevole  ed  arbitraria  e  pertanto censurabile a norma
dell'art. 3  della  Costituzione.  Orbene,  entrambe le condizioni di
legittimita'  dei reati di pericolo presunto non sembrano soddisfatte
dall'art. 341 c.p., perche', da un lato, e' innegabile la distanza di
questa  fattispecie  dai  settori in cui legittimamente e' utilizzata
questa  tecnica  legislativa  e,  dall'altro, e' proprio l'esperienza
concreta   a  smentire  quella  presunzione  di  pericolosita'  della
condotta tipica alla stregua dell'art. 341 c.p.
    Infine  la  tesi,  nonostante le premesse, non riesce a liberarsi
del   tutto  dalla  concezione  autoritaria  che  storicamente  e'  a
fondamento  della  norma,  perche'  il  pericolo  di  alterazione del
processo  decisionale del p.u. conseguente alla mera offesa all'onore
o  al  prestigio  del  p.u.  si giustifica solo in un sistema di p.a.
fondato  sul dovere di obbedienza del privato, la cui violazione puo'
appunto   comportare  un'alterazione  del  regolare  esercizio  della
funzione  pubblica,  ma  risulta  difficilmente  comprensibile  in un
sistema  fondato  sulla  qualificazione  delle attivita' burocratiche
come  modi  di  esercizio del potere di partecipazione individuale e,
pertanto,  su  di una parificazione tra funzionari pubblici e privati
cittadini.
    4. g) - (segue) Conclusioni.
    Si  deve  pertanto  concludere che il bene protetto dall'art. 341
c.p.  fosse  unicamente  l'onore  ed  il  prestigio del singolo p.u.,
perche'  solo  questo  e'  sempre  ed immancabilmente raggiunto dalla
condotta criminosa tipica.
    Con  cio' naturalmente non si intende negare che la tipicita' del
reato  fosse  tanto  ampia  da  abbracciare,  eventualmente, concrete
ipotesi  in cui oltre ad essere offeso questo bene fosse offeso anche
il  bene  del  prestigio  (ad  es. offese arrecate "pubblicamente") o
addirittura del buon andamento della p.a. (si pensi al caso di offese
arrecate  mediante  violenza  o  minaccia e non solo a causa ma anche
nell'esercizio  delle  funzioni).  Ma si tratta di casi, dal punto di
vista   statistico,   marginali,  quasi  sempre  aggravati  ai  sensi
dell'art. 341  u.c. c.p. e che spesso comportavano l'integrazione, in
concorso  formale o in continuazione, dei reati di cui agli artt. 336
e  337 c.p., chiaramente e tipicamente rivolti alla tutela del libero
svolgimento  dell'azione  amministrativa,  tali  cioe'  da  assorbire
integralmente  l'offesa  a quel bene. Invece le ipotesi riconducibili
alla  fattispecie  semplice  si risolvevano spesso, se non sempre, in
fatti  obbiettivamente "bagattellari", ed in cui ne' il prestigio ne'
il buon andamento della p.a. potevano ritenersi seriamente colpiti.
    Insomma  si  tratta  di  prendere  realisticamente  atto  che  il
legislatore  non  si e' preoccupato di selezionare solo e soltanto le
ipotesi   concretamente  offensive  di  quei  beni,  configurando  al
contrario   una   fattispecie   onnicomprensiva,  in  cui  ricadevano
indistintamente condotte dal disvalore sociale profondamente diverso,
perche'  incidenti  su beni giuridici diversissimi. Piu' precisamente
ancora  il  legislatore  del  1930 ha tipizzato una fattispecie tanto
ampia   semplicemente  perche'  e'  partito  da  scelte  di  politica
criminale  del  tutto  diverse,  per  non  dire  opposte.  Lo  stesso
legislatore  repubblicano,  rimasto  a  lungo  inerte,  e' giunto col
riconoscere la bonta' di queste conclusioni, disponendo l'abrogazione
pura e semplice della norma incriminatrice e non una mera modifica al
regime sanzionatorio. L'abrogazione "secca" dell'art. 341 c.p. sembra
infatti  fondata  sulla  precisa  volonta'  legislativa  di eliminare
quella  posizione  di privilegio ricoperta dai pubblici ufficiali, in
quanto  ritenuta  non  piu'  compatibile  con  i principi democratici
fissati  nella  Costituzione,  cosi'  per  altro  verso  ribadendo la
sostanziale  erroneita'  della  tesi  che ravvisava nell'oltraggio un
reato  a  tutela  anche  del  buon  andamento  della  p.a. (o del suo
prestigio).
    Una  ulteriore  conferma di questa conclusione e' rintracciabile,
ad  avviso  di questo giudice, nella stessa sentenza n. 341/1994 che,
pur  confermando  in termini generali la plurioffensivita' del reato,
che  in  linea  di  principio  rendeva improponibile il raffronto, ai
sensi  dell'art. 3  della  Costitunzione,  "con il reato di ingiuria,
tuttavia  ravvisava  l'incostituzionalita' per i casi piu' lievi, nei
quali   il   prestigio   ed   il   buon   andamento   della  pubblica
amministrazione,   scalfiti  da  ben  altri  comportamenti,  appaiono
colpiti  in  modo  cosi'  irrisorio  da  non giustificare che la pena
minima  debba  necessariamente essere dodici volte superiore a quella
prevista  per  il  reato di ingiuria. L'illegittimita' costituzionale
veniva  dunque  argomentata  anche  dal  raffronto con il trattamento
sanzionatorio previsto dall'art. 594 c.p. ed e' allora evidente che i
"casi  piu'  lievi",  proprio  perche'  legittimavano il paragone col
reato di ingiuria, normalmente interdetto dalla plurioffensivita' del
reato  di  oltraggio,  non  attenevano  affatto  ad una differenza di
quantita'  dell'offesa,  bensi'  ad  una  differenza di qualita', nel
senso  cioe'  che  si  tratta  di casi in cui, come nell'ingiuria, ad
essere  offeso  e'  esclusivamente  il  bene personale dell'onore del
singolo  p.u. e non anche, se non in modo del tutto irrisorio, i beni
del  prestigio  e del buon andamento della p.a. Insomma era la stessa
Corte  costituzionale  ad  essere giunta alla conclusione che l'ampia
tipicita'  tratteggiata dall'art. 341 c.p. comprende ipotesi tra loro
eterogenee   quanto   a   disvalore,   mentre   la  dichiarazione  di
incostituzionalita'  con  esclusivo riferimento al minimo edittale si
spiegava  col  limite  che  in  quella  occasione  era  imposto dalla
questione  sollevata,  non  coinvolgente ne' la previsione del limite
massimo  di  pena,  ne' le rimanenti disposizioni dell'art. 341 c.p.,
come  si  chiariva  con  una  precisazione  posta  ad  incipit  della
sentenza.
    Naturalmente  l'aver  escluso  che  prestigio  e/o buon andamento
della  p.a.  costituissero  il  bene giuridico tutelato dall'art. 341
c.p.  non  esclude,  di  per  se',  che potessero essere assunti, nel
quadro   del   mutato   assetto   costituzionale,   come   la   ratio
politico-criminale   della   norma,   in   sostituzione   alla  ratio
originaria, fondata sul principio d'autorita'. Infatti la ratio della
norma,  al  contrario del bene giuridico, non impone di rinvenire, in
ogni singola e concreta condotta punita, un coinvolgimento diretto ed
immediato  di  quell'interesse  che  ne  costituisce  il  fondamento,
riposando  normalmente  su  intenti  di  prevenzione generale di piu'
ampia portata. Resta tuttavia da stabilire se lo strumento apprestato
fosse davvero congruente rispetto al fine che si assumeva perseguito,
sotto  il  profilo  della ragionevolezza, tenendo ben presente che la
fattispecie   era  stata  originariamente  tipizzata  sulla  base  di
tutt'altra  ratio,  sicche' occorreva in primo luogo verificare se la
formula  legislativa  fosse  sufficientemente  flessibile  per essere
piegata  a  diverse  finalita',  e in secondo luogo se tale finalita'
fosse  davvero capace di giustificare razionalmente la diversa e piu'
rigorosa  tutela  dell'onore  dei p.u. rispetto all'onore dei privati
cittadini,  alla luce di tutte le norme costituzionali che vengono in
considerazione.
    4.  h) - Norme  e  principi costituzionali in possibile contrasto
con   l'art.  341  c.p.,  nel  suo  complesso:  a)  il  principio  di
uguaglianza e della pari dignita' sociale.
    Venendo   finalmente  alle  norme  costituzionali  con  le  quali
l'art. 341 c.p. sembra entrare in rotta di collisione, viene in prima
battuta  in  considerazione  il  principio  per  il  quale  "tutti  i
cittadini  hanno  pari  dignita'  sociale  (...) senza distinzione di
(...)  condizioni  personali  e sociali" (art. 3, comma 1, Cost.). Al
riguardo  va  osservato,  da  un lato, come la Costituzione consideri
primo  valore  costituzionale  la  persona in se', prescindendo dalle
qualita'  ad  essa  inerenti  e dalle mansioni da essa esercitate, e,
dall'altro, che il bene tipicamente personale dell'onore, inteso come
valore  morale  intrinseco  alla persona in quanto tale, altro non e'
che  un  particolare  aspetto  di  quella  dignita'  sociale  cui  fa
riferimento l'art. 3 Cost., rientra nei diritti inviolabili dell'uomo
riconosciuti  dall'art. 2  della  Costituzione ed e', infine, per sua
natura,  eguale  in  tutti  gli  uomini, indipendentemente da giudizi
sociali  di  merito  o di demerito. Posta questa premessa e' evidente
che  l'art. 341  c.p.,  in  quanto comportava una tutela privilegiata
dell'onore  del  p.u.  rispetto  a  quella  apprestata  all'onore dei
privati cittadini dall'art. 594 c.p., si poneva in contrasto, in modo
diretto,  col  principio della pari dignita' sociale, nella misura in
cui  si  escludeva che esso tutelasse altri e diversi beni giuridici.
Invero la diversa e piu' rigorosa tutela prevista dall'art. 341 c.p.,
rispetto  all'art. 594  c.p.  veniva  collegata  al  mero  status  di
pubblico  ufficiale,  utilizzando  cioe'  un criterio di distinzione,
quello  delle  "condizioni  personali e sociali", espressamente fatto
oggetto di divieto dalla norma costituzionale. D'altra parte non puo'
essere  negato  che  il  principio  di  uguaglianza  e'  un principio
fondamentale  che,  in  quanto  tale,  non ammette limitazione se non
fondate su interessi costituzionalmente rilevanti.
    Da  questo punto di vista occorre appunto verificare se la tutela
diversificata   dell'onore   del  p.u.  potesse  trovare  ragionevole
giustificazione  nella  ratio  del principio del buon andamento della
p.a.,  costituzionalmente  rilevante  a  norma dell'art. 97, comma 1,
della Costituzione. Ma una simile prospettiva non sembrava seriamente
praticabile e cio' almeno per tre ragioni.
    La  prima  e'  che  il  principio  del buon andamento della p.a.,
peraltro  difficilmente  estensibile  sino al punto da comprendere il
semplice  "normale  funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto
dalla  Costituzione  come  valore  in  se',  ma piuttosto come valore
funzionale  alla  garanzia  dei  diritti inviolabili dei cittadini e,
pertanto,  non  puo'  assumersi il diritto alla pari dignita' sociale
"in  funzione"  della  piena  realizzazione  dell'interesse  al  buon
funzionamento  della  p.a. In secondo luogo occorre prendere atto che
la  fattispecie  di  cui  all'art. 341  c.p.  era  stata  strutturata
seguendo   direttrici  di  tutela  del  tutto  diverse,  fondate  sul
principio  d'autorita'  e  la  norma  tradiva  questa origine ad ogni
applicazione   concreta,   tanto   da   risultare   in  larga  misura
insensibile,  sotto  il profilo del concreto contenuto precettivo, al
mutamento  di  prospettiva, sul piano dello scopo politico criminale,
imposto  dai nuovi valori costituzionali. Se ne deve pertanto dedurre
che  lo strumento apprestato fosse radicalmente inidoneo ed incongruo
rispetto  al fine prospettato, perche' finiva col punire, in modo del
tutto  sproporzionato,  oltre a condotte in qualche modo coinvolgenti
anche  il  buon  andamento  della p.a., sia pure in senso assai lato,
intere  categorie  di condotte, che nulla avevano a che fare con quel
fine,  con  conseguente violazione ancora dell'art. 3 Cost., sotto il
profilo  del  criterio  di  ragionevolezza.  In  terzo  luogo  e'  la
giustificazione  stessa  alla  diversa tutela accordata all'onore del
p.u.  incentrata  sul "buon andamento" che contrasta col "modello" di
p.a.  accolto  dalla  Costituzione.  Infatti  il  rapporto tra p.a. e
cittadino  nell'attuale  assetto  costituzionale,  e'  essenzialmente
paritario  e  di  "partecipazione",  con  un  netto ed inequivocabile
rifiuto  del  principio  di  autorita'  e  di  "fedelta'" allo Stato,
caratterizzante il precedente regime. Cio' lo si desume anzitutto dal
principio  secondo  il  quale  "la  sovranita'  appartiene al popolo"
(art. 1,   comma  2,  Cost.).  E'  ben  vero  che  l'esercizio  della
sovranita'  e'  consentito  solo  "nelle  forme  e  nei  limiti della
Costituzione",  ma  cio'  non  toglie,  da  un  lato, l'importanza di
principio  dell'affermazione  dell'originaria appartenenza del potere
al  popolo  e,  dall'altro, grazie al collegamento con il resto della
Costituzione  e,  in  primo  luogo  col principio personalista di cui
all'art. 2  Cost.,  la  possibilita'  di rinvenire a carico di chi in
concreto  esercita  il  potere  un  vincolo di corrispondenza ai fini
propri  del tipo di ordine garantito dalla Costituzione medesima, con
particolare  riferimento al metodo democratico come il solo che possa
determinare  la  politica  nazionale (art. 49 Cost.), con conseguente
stretto  collegamento  tra  la  concezione  dei  rapporti tra Stato e
cittadini  e  la  forma  (democratica)  di  Stato accolta. Inoltre il
collegamento  con l'art. 2 della Costituzione consente di riconoscere
fra  i  diritti  inerenti  della persona e in posizione assolutamente
primaria   quello   di   far  discendere  la  soggezione  del  popolo
all'autorita'  statale  dal  riconoscimento  della partecipazione del
medesimo  alla  sua formazione ed all'esplicarsi della sua successiva
attivita'.  Cio'  emerge  anche nell'indicazione, come fine primario,
dell'"effettiva     partecipazione     di    tutti    i    lavoratori
all'organizzazione   politica,   economica   e  sociale  del  Paese",
nell'art. 3,  comma 2  della Costituzione. Ne deriva che le attivita'
burocratiche  vengono  a  porsi  come modi di esercizio del potere di
partecipazione   individuale   con  conseguente  parificazione  della
condizione  personale  degli appartenenti alla burocrazia a quella di
tutti  i  cittadini.  Da  questo  punto  di  vista  il  fine del buon
andamento  della  p.a.  non  sembra  in  grado  di  giustificare  una
peculiare  tutela  dei  p.u. rispetto a quella spettante ai cittadini
proprio  perche',  cosi'  facendo, si viene ad inficiare la posizione
paritaria  tra  funzionari  e  cittadini,  reintroducendo,  in  forma
larvata,   quel  principio  d'autorita'  che  si  era  invece  voluto
decisamente respingere.
    Dal  mutamento  di  prospettiva che considera la p.a. al servizio
del  cittadino e non viceversa, discende piuttosto la possibilita' di
ravvisare  maggiori  doveri  in  capo  ai pubblici funzionari, la cui
violazione  comporta  responsabilita' sia all'interno che all'esterno
della   p.a.,   in  funzione  di  garanzia  per  il  buon  andamento,
l'imparzialita'  e  la legittimita' dell'azione degli uffici cui sono
preposti,  come  si puo' desumere dagli artt. 28 e 54, comma 2, della
Costituzione. Ed anzi dall'art. 54, comma 2, della Costituzione si ha
la  conferma che l'"onore" del p.u. si configura non come rispetto od
ossequio  dovutogli, bensi' come conseguenza del rigoroso adempimento
dei  propri  doveri,  sicche'  il  p.u.  non  ha  tanto  il "diritto"
all'onore,  perlomeno  non  un diritto diverso da quello spettante ad
ogni  uomo,  quanto  piuttosto  il  "dovere"  di  meritarsi  stima  e
considerazione  presso  la  collettivita'  mediante  un comportamento
legale,  efficiente ed imparziale. In conclusione il funzionario deve
essere  considerato,  nell'attuale  assetto costituzionale, non tanto
come  "autorita'",  bensi'  come  servitore dell'interesse generale e
come   soggetto  che  non  fa  altro  che  esercitare  il  potere  di
partecipazione proprio di ogni cittadino.
    Come si vede un'impostazione assai diversa, per non dire opposta,
di  quella  degli Stati totalitari e teocratici, secondo la quale non
esistono  diritti  dei  sudditi verso lo Stato ma solo doveri, attesa
l'origine  divina  del potere e la derivazione divina del sovrano. Ed
e'  evidente  che, mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di
obbedienza  anche  una  semplice  offesa al p.u., in sua presenza e a
causa  o  nell'esercizio  delle  sue  funzioni, puo' ragionevolinente
assumersi   come  possibile  causa  di  un'alterazione  del  "normale
svolgimento"  dell'esercizio della funzione, appunto perche' segno di
ribellione  all'autorita' e, in quanto tale, in contrasto col modello
di  p.a.  accolto,  cio'  deve invece essere decisamente negato in un
sistema  di  p.a. fondato sulla parita' tra cittadino e funzionario e
sul   diritto   dei   privati   alla  "partecipazione"  all'attivita'
burocratica.
    4. i) - (segue) b) I principi d'offensivita', di proporzione e di
determinatezza.
    Ma l'art. 341 c.p., oltre a violare il principio di uguaglianza e
le  regole  che  disciplinano  i  rapporti della p.a. coi privati, si
poneva  in  contrasto  anche  col  "volto costituzionale" del moderno
diritto  penale, che viene a caratterizzarsi soprattutto come sistema
di  limiti  sostanziali  al  legislatore (sentenza 23-25 ottobre 1989
n. 487).
    Al  riguardo  veniva  anzitutto in considerazione il principio di
necessaria  offensivita',  strettamente  legato  alla  concezione del
diritto  penale come extrema ratio (c.d. principio di sussidiarieta),
che  si  deve  ritenere  costituzionalizzato  per via di implicazione
logica  dagli  artt. 25, comma 2 (in particolare dall'uso del termine
"fatto")  e  27,  comma  3, Cost., letti alla luce dell'art. 13 Cost.
Infatti  posto  che  con  la  pena si viene ad incidere su di un bene
primario  come  la  liberta'  personale (art. 13 Cost.), oltre che su
altri  valori  fondamentali,  quali  la  dignita' sociale ed il pieno
sviluppo   della   personalita'  umana  (art. 3  Cost.),  intanto  si
giustifica   in  quanto  sia  diretta  a  tutelare  beni  socialmente
apprezzabili.  Cio'  comporta  l'adozione di un "modello" liberale di
diritto   penale   fondato  sull'esigenza  di  tutelare  un  concreto
interesse, offeso dal fatto tipico.
    Nel caso dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la possibilita' di
assumere  ad oggetto di tutela il prestigio o il buon andamento della
p.a., che semmai potevano costituire la mera ratio politico-criminale
dell'incriminazione,  e'  evidente che la previsione dell'oltraggio a
pubblico ufficiale come autonomo titolo di reato non si giustificava,
non  potendosi rinvenire tale giustificazione nell'esigenza di tutela
dell'onore del singolo p.u., gia' compiutamente "coperta" dal diverso
reato  di cui all'art. 594 c.p. (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10
c.p.).     D'altra     parte    recuperare    l'originaria    ragione
dell'incriminazione,  ossia  la particolare qualificazione dell'onore
del  p.u.  in  ragione del principio di autorita', oltre ad aprire la
strada  alla  prima  censura sopra evidenziata della violazione della
pari  dignita'  sociale  e  del  modello  costituzionale di p.a., non
consentiva  di  risolvere il problema neppure sotto il profilo qui in
esame.  Infatti  se  e'  vero che il modello del reato come offesa ai
beni  giuridici  nulla  garantisce in ordine ai contenuti delle norme
incriminatrici che, pur rispettando formalmente quel modello, possono
essere  i  piu'  illiberali, si deve osservare che nel caso di specie
l'assunzione  ad  oggetto di tutela di un bene giuridico strettamente
connesso   al   principio   di   autorita'   in  se'  considerato,  e
conseguentemente  al  dovere  di obbedienza del privato nei confronti
dello  Stato,  finiva col compromettere non solo i contenuti ma anche
la  forma  stessa  di  un  diritto  penale liberale, scivolando verso
modelli  illiberali,  come  quelli  propri  del  diritto penale della
volonta'  o dell'atteggiamento interiore, a sfondo eticizzante, o del
diritto  penale dell'infedelta' allo Stato; modelli cioe' che tendono
a  concepire  il  reato  in  termini di pura disobbedienza alle norme
statuali.
    Un altro principio fondamentale che viene in considerazione e' il
principio di proporzione, desumibile dalla funzione rieducativa della
pena  di  cui  all'art. 27, comma 3, Cost., purche' estesa anche alla
fase   dell'astratta   previsione  normativa,  oltre  che  alla  fase
dell'applicazione  giudiziale e dell'esecuzione. Infatti la finalita'
rieducativa  postula  che  il reo avverta che il trattamento punitivo
inflittogli  sia  proporzionato  al  disvalore  del  fatto  commesso,
perche'  altrimenti  si  stimola  un  atteggiamento  di ostilita' nei
confronti dell'ordinamento.
    Si  tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico,
e  che  costituisce  un'applicazione  del  piu' generale principio di
uguaglianza  di  cui  all'art. 3 Cost., risolvendosi nella necessita'
che la scelta dello strumento per raggiungere il fine sia limitata da
considerazioni  razionali  rispetto  ai  valori,  ma  che, in materia
penale,  acquista  una forza cogente tutta particolare in ragione del
fatto   che   lo  strumento  penale  viene  ad  incidere  su  diritti
fondamentali  dell'individuo.  Quale  vincolo  alla  discrezionalita'
legislativa   in  materia  penale  il  principio  equivale  a  negare
legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
a   raggiungere   finalita'   statuali   di  prevenzione,  producono,
attraverso   la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi  diritti
fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente  maggiori  dei
vantaggi  ottenuti  (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei
beni e dei valori delle predette incriminazioni (sentenza n. 409/1989
cit.).
    Da questo punto di vista il principio di proporzione opera su due
piani,  altrettanto  importanti:  a) sul  piano  della congruenza tra
gravita' del fatto tipico e sanzione, comportando la necessita' di un
giudizio  relazionale  interno  alla  norma  (tra  fatto  e pena), in
considerazione  del  bene  della liberta' personale sacrificato dalla
pena (con possibilita' di un esito diverso a seconda del tipo di pena
previsto,  posto  che  la  pena  pecuniaria  solo eventualmente ed in
misura   minore  viene  ad  incidere  su  quel  bene,  attraverso  la
conversione  in  liberta' controllata o in lavoro sostitutivo in caso
di  insolvibilita':  art.  102, legge n. 689/1981), ed in tal caso il
giudizio   non   riguardera'   direttamente   lo  scopo  o  la  ratio
dell'incriminazione,  che  rimarra',  per cosi' dire sullo sfondo, ma
piuttosto  gli  elementi  di  definizione  dell'offesa  (modalita' di
lesione e bene giuridico tutelato) ed il suo eventuale esito negativo
comportera'     conseguenze     esclusivamente    sulla    disciplina
sanzionatoria; b) sul piano della congruenza tra strumento normativo,
ossia  la fattispecie criminosa, e finalita' che con l'incriminazione
si  intende perseguire, ed in tal caso e' evidente che l'ambito della
valutazione   e'   piu'   ampio   perche'   coinvolgente   la   ratio
politico-criminale della norma, che e' un elemento esterno alla norma
stessa.  In  questa  seconda prospettiva cio' che assume rilevanza in
via  diretta non e' il profilo sanzionatorio, bensi' la struttura del
reato,  perche'  e'  il  riferimento alle caratteristiche tipologiche
dell'offesa  a  consentire il giudizio di congruenza con la finalita'
perseguita,  mentre  l'eventuale esito negativo del giudizio dovrebbe
comportare  l'incostituzionalita' dell'intera fattispecie, perche' in
tal  caso  la  sproporzione  attiene  non  al quantum ma all'an della
tutela penalistica.
    Quanto  ai  casi in cui si realizza la sproporzione, nel senso da
ultimo  indicato, ritiene questo giudice che cio' si verifichi quando
le condotte punite siano descritte in modo tanto ampio da abbracciare
non  solo  alcune ipotesi marginali (il che non comporterebbe profili
di  illegittimita'  costituzionale  della  norma ma, semmai, semplici
motivi   di   inopportunita'   politica),  ma  addirittura  l'assolta
maggioranza di condotte, la cui punizione non ha alcuna attinenza col
fine  perseguito.  In  tal  caso infatti non si potrebbe escludere la
macroscopica   irragionevolezza   dell'incriminazione,  non  solo  in
riferimento  all'art. 27, comma 3, Cost. ma anche in riferimento allo
stesso art. 3 Cost.
    Nel  caso  di  specie  si  e' gia' abbondantemente argomentata la
particolare "distanza" tra la struttura del reato di cui all'art. 341
c.p. e gli scopi di tutela legittimamente assumibili alla stregua del
vigente assetto costituzionale, ossia il prestigio, inteso come stima
e  "fiducia"  presso la collettivita', ovvero il buon andamento della
p.a.,  nel senso cioe' che solo in un numero irrisorio dei casi, quei
fini trovavano corrispondenza nella realta', mentre nella maggioranza
dei casi si trattava di condotte che nulla vi avevano a che fare e la
cui  punizione,  sulla base di un titolo di reato autonomo e distinto
rispetto  al  reato  di  cui  all'art. 594 c.p., trovava esclusiva ed
effettiva giustificazione sulla base dell'originaria ratio di tutela,
ossia  il  principio  di  autorita'  ed il rapporto di sudditanza tra
Stato e cittadini.
    Ma  al riguardo appare violato o comunque messo in crisi anche un
altro  principio  fondamentale,  con  funzione  di garanzia, ossia il
principio  di  sufficiente  determinatezza,  direttamente  desumibile
dalla  riserva  di  legge di cui all'art. 25, comma 2, Cost., perche'
nel   caso   di  specie  ed  in  riferimento  alle  ratio  di  tutela
individuate,  appare  evidente  che  le  espressioni  utilizzate  per
collocare   l'offesa   all'onore   del   p.u.   in   una   dimensione
"pubblicistica"    (in   particolare   l'espressione   "a   causa   o
nell'esercizio delle sue funzioni", ma anche il riferimento a tutti i
p.u.  e,  a  norma  dell'art. 344  c.p.,  ai  pubblici dipendenti che
prestino  un  pubblico servizio), erano caratterizzate da un grado di
estensione   tale   da  designare  realta'  profondamente  diverse  o
addirittura eterogenee quanto a disvalore, venendo cosi' ad integrare
un  vizio classico di deficit di determinatezza, quello per eccessiva
onnicomprensivita'   della   realta'  rappresentata  (cfr.  circolare
Presidenza  del  Consiglio  dei ministri cit., 18). Insomma il "tipo"
individuato   dall'art. 341  c.p.  non  risultava  espressivo  di  un
omogeneo  contenuto di disvalore. La spiegazione del perche' cio' sia
accaduto  e' ancora una volta storica e riposa sull'osservazione che,
come  e'  noto,  il  legislatore  nell'elaborare  le  norme compie un
procedimento  di  astrazione  dagli  oggetti della realta' sensibile,
tutti  in  quanto  tali  diversi  tra  loro,  in  base  al quale sono
apprezzate le somiglianze e trascurate le differenze sino ad ottenere
una   classe   di   oggetti   ritenuti   sostanzialmente  "uguali"  e
riconducibili   nel   significato   concettuale  espresso  dal  segno
linguistico.
    Cio'  che  pero'  orienta  questo processo sono scelte di valore,
sicche'  diverse  scelte  di  valore  comportano  generalmente  esiti
diversi.  Nel  caso di specie l'elaborazione della norma e' avvenuta,
nel  1930,  su  di  una  scelta  di  valore, fondata sul principio di
autorita',  nel  cui  ambito  il reato era effettivamente in grado di
esprimere  un  contenuto  di disvalore del tutto omogeneo. Invece una
volta  che  la  scelta  di  valore  viene  cambiata, perche' cio' era
imposto  dall'avvento  della  Costituzione, l'estensione della norma,
rimasta  invariata,  non  poteva  non destare fondate perplessita' di
legittimita'  costituzionale,  perche'  a  questo  punto  si realizza
quella  insopportabile  sfasatura  tra  la  realta'  significata  e i
contenuti  valutativi  sottesi alla fattispecie, nella quale consiste
la  ragione  piu'  profonda  della  violazione dell'art. 25, comma 2,
Cost. e, sotto il profilo della ragionevolezza, dell'art. 3 Cost.
    Cio',   naturalmente,  comporta  la  necessita'  di  superare  la
tradizionale   diffidenza   verso   il   principio  di  tassativita',
riconoscendo  la  sua  violazione  non solo quando i limiti "esterni"
della  fattispecie  siano  indeterminati,  cosi' da rendere incerti i
confini  tra  lecito  ed  illecito,  ma  anche  quando  e'  la stessa
fattispecie   al  suo  interno  a  risultare  indeterminata,  perche'
espressiva  di  contenuti  eterogenei,  rispetto  al  bene  giuridico
protetto  e/o  alle  finalita'  di  tutela. Del resto si tratta di un
passaggio  che  la Corte costituzionale ha gia' adombrato dichiarando
l'incostituzionalita'  dell'art. 708 c.p., riscontrando un deficit di
tassativita' non in via assoluta ma perche' strumento ottocentesco di
difesa  sociale  del  tutto  inadeguato  rispetto  alle  finalita' di
tutela,  anche  in  relazione  alle  mutate condizioni sociali, e, in
quanto  tale,  irragionevole  a  norma  dell'art. 3  Cost.  (sentenza
17 ottobre-2 novembre 1996 n. 370).
    Ne'  il vizio appariva sanabile in via interpretativa. Infatti il
compito  di  una  selezione delle condotte meritevoli della maggiore,
rispetto al reato di ingiuria, tutela di cui all'art. 341 c.p., nella
misura  in  cui  impone  la  scelta  su  diverse  opzioni di politica
criminale, spetta necessariamente al legislatore.
    D'altra  parte  va  ricordato che il principio di determinatezza,
analogamente  al  divieto  di  analogia in malam partem, si pone come
garanzia  a  salvaguardia  degli eccessi del potere giudiziario, e la
sua  violazione  comporta  tipicamente  la  necessita'  di operazioni
interpretative  dirette  a  meglio  delimitare il contenuto normativo
della   disposizione   senza  che  pero'  siano  offerte  sufficienti
indicazioni  da parte del segno linguistico (circolare Presidenza del
Consiglio dei ministri cit., 19), scadendo in un'opera interpretativa
necessariamente  intuitiva,  variabile  da interprete ad interprete a
seconda  della  sensibilita'  e  delle  inclinazioni  ideologiche  di
ciascuno.
    Neppure era possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata
al  giudice  in  sede  di applicazione della pena tra il minimo ed il
massimo  a norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe' che spettava al
giudice  individuare  i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il solo
bene  dell'onore  del  singolo p.u., da punire col minimo della pena,
differenziandoli  dai  casi  piu'  gravi, perche' offensivi anche del
bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli di una
pena  piu'  severa,  magari  sottolineando  che  era  proprio l'ampia
forbice  editale conseguente alla sentenza n. 341/1994 che consentiva
di  ricondurre  in  uno  stesso  modello  di genere una pluralita' di
sotto-fattispecie  diverse  per struttura e disvalore. In particolare
non poteva essere a tal fine citata come precedente la sentenza della
Corte  costituzionale  23 maggio-18 giugno 1991 n. 285 per almeno tre
ragioni.   In  primo  luogo  in  quella  occasione  la  questione  di
legittimita'   costituzionale   era  stata  sollevata  con  esclusivo
riferimento  all'art. 3  Cost.,  sotto il profilo dell'ingiustificata
parificazione  di  trattamento  di  ipotesi  diversificate, mentre in
questi  casi  assume  preminente rilievo piuttosto l'art. 25, comma 2
Cost. In secondo luogo in quel caso la normativa ordinaria denunziata
poteva avvalersi di una attenuante ad effetto speciale (art. 5, legge
2  ottobre 1967, n. 895) che consente una riduzione della pena sino a
due terzi, permettendo di differenziare le diverse ipotesi e la Corte
costituzionale,  nel  respingere  la  questione,  ha sottolineato con
forza  l'importanza  di  questo  elemento.  In  terzo luogo in quella
occasione  mancava una fattispecie che potesse assumersi come termine
di  paragone, mentre in questo caso non puo' sfuggire che la medesima
strada  interpretativa  diviene impraticabile proprio per la naturale
vocazione  dell'art. 594 c.p. a porsi come tertium paragonis. Infatti
una  volta  ammesso  che i "casi lievi" in nulla si distinguono dalle
ipotesi  punite a norma dell'art. 594 c.p. (e art. 61 n. 10 c.p.) non
sembra  possibile  giustificare razionalmente una diversa disciplina.
Insomma  la  disomogeneita'  e' gia' a livello astratto e ad essa non
puo'  porsi  rimedio mediante le valutazioni che, sul piano concreto,
il  giudice  deve  compiere  ai fini della determinazione in concreto
della  pena,  perche' e' lo stesso trattamento punitivo minimo di cui
all'art. 341  c.p.,  a  risultare  sproporzionato e, in confronto con
l'art. 594  c.p.,  irragionevole per la mancata previsione della pena
pecuniaria  (e  dell'intera  disciplina  propria  dell'art. 594 c.p.,
compresa la procedibilita).
    D'altra  parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge
di  cui  all'art. 25,  comma  2, Cost. si riferisce anche alla pena e
deve  pertanto  ritenersi violata dalla previsione di fattispecie "ad
amplissimo spettro" con forbici edittali tanto ampie da far scivolare
la  discrezionalita'  del  giudice  nella  determinazione  della pena
nell'arbitrio  punitivo.  Anche  in  tal  caso infatti si affida - si
potrebbe  dire  sulla  base  di  una  sorta di delega in bianco nelle
scelte  punitive  -  al  giudice  l'individuazione,  gia'  a  livello
astratto,  della  gravita' del fatto, smarrendo la "significativita'"
del  tipo  e  la  funzione  di  guida  della  norma  penale,  nonche'
confondendo  il  piano  della quantificazione del disvalore del fatto
sulla base di ragionevoli scelte di valore, riservato al legislatore,
col piano della commisurazione della pena, in relazione alle infinite
variabili  del  caso  concreto,  di pertinenza del giudice. La stessa
Corte  costituzionale, nella sentenza sopra citata, non ha mancato di
ribadire che l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti-reato
tipici,  e  quindi  del loro diverso grado di offensivita', spetta al
legislatore;  mentre al giudice compete di valutare la particolarita'
del caso singolo onde individualizzare la pena, stabilendo in base ad
esse,  nella  cornice  posta  dai limiti edittali, quella adeguata in
concreto.  Poiche'  gli  ambiti delle due sfere non vanno confusi, e'
compito  del  legislatore  di  rispettare  quel  rapporto  attraverso
un'adeguata  articolazione  dei trattamenti sanzionatori. Non solo ma
la   stessa  Corte  costituzionale  non  ha  esitato  dal  dichiarare
incostituzionale  una  norma  incriminatrice, sulla base degli stessi
rilievi,  in presenza di un divario eccessivo tra minimo e massimo di
pena  (da due a 24 anni di reclusione, con un rapporto di 1 a 12), di
una questione sollevata in relazione all'art. 25, comma 2, Cost. e di
una  diversa  norma  incriminatrice  piu'  generale,  alla  quale  le
condotte  previste  dalla norma dichiarata incostituzionale potessero
essere  ricondotte,  funzione  che,  nel  caso  di  specie, e' svolta
agevolmente  dall'art. 594  c.p. (sentenza 15-24 giugno 1992 n. 299).
Da questo punto di vista era la stessa ampia forbice editale prevista
dall'art. 341  c.p.,  a seguito della sentenza n. 341/1994, che va da
15  giorni  a  2  anni  di  reclusione  (con un rapporto da 1 a 48) a
destare  serie  perplessita'  sotto  il  profilo  della  legittimita'
costituzionale della norma.
    4. l) - (segue) c) Principio del buon andamento della p.a.
    Ultimo   profilo   di   possibile  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 341  c.p.,  nel  suo  complesso,  che  va evidenziato e' il
principio del buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost., che
potrebbe  apparire  paradossale se si pensa che il medesimo principio
era generalmente individuato come il fine dell'incriminazione, se non
addirittura  come  il  bene giuridico protetto. Tuttavia a ben vedere
cio'  non  deve  sorprendere  perche'  i  fini  di politica criminale
impongono  l'adozione  di  strumenti  congruenti  con  essi  e non di
strumenti  assolutamente sproporzionati e sovrabbondanti e, in quanto
tali, controproducenti.
    Ora,  la prassi mostra come l'incriminazione indiscriminata delle
condotte  descritte  dall'art.  341  c.p. non risultava il piu' delle
volte    per    nulla    funzionale   all'efficienza   delle   stesse
amministrazioni  di appartenenza del singolo p.u. offeso, obbligato a
denunziare il fatto a norma dell'art. 361 c.p., ad assentarsi dal suo
ufficio  per  presentarsi a rendere testimonianza anche a distanza di
anni,  magari  affrontando viaggi notevoli a seguito di trasferimenti
successivi   al   fatto,   con  correlativo  dispiegamento  di  tutta
un'attivita'  burocratica,  prima  ancora  che giudiziaria, del tutto
sproporzionata  alla  scarsissima  rilevanza  del  disvalore  sociale
(sotto  il  profilo  dell'interesse pubblicistico del prestigio o del
buon  andamento  della  p.a.)  riscontrabile  in simili fatti, con un
bilancio,   in   termini   di   analisi   costi/benefici,  gravemente
deficitario anche dal punto di vista della p.a. stessa.
    Non  solo, ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita'
di   reazione   da   parte  dei  p.u.,  imposta  per  legge,  avverso
comportamenti  certo  disdicevoli ed anche penalmente illeciti, sotto
il  profilo  dell'offesa  all'onore  del  singolo  p.u.,  ma  che  la
coscienza  sociale  stentava del tutto a riconoscere come qualificati
da  una quota aggiuntiva di disvalore, finiva proprio con l'inficiare
quella  "fiducia"  dei consociati nella p.a. che e' essenziale per un
corretto  svolgimento  delle funzioni pubbliche secondo il modello di
p.a.  accolto  dalla  Costituzione, finendo per porsi come fattore di
"estraneita'" e di "distanza" tra p.a. e cittadino.
    4.   m) - Profili  di  incostituzionalita'  parziali:  a) mancata
previsione della pena pecuniaria.
    Venendo  ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali", essi
attengono  alla  mancata  previsione,  almeno  per  i  casi di minore
gravita',  della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva,
e della procedibilita' a querela di parte.
    Quanto  alla  mancata  previsione della pena pecuniaria, viene in
considerazione,  oltre  al  principio di uguaglianza sotto il profilo
del  criterio  di  ragionevolezza  ed in generale tutte le norme ed i
principi  costituzionali  sopra evidenziati, soprattutto il principio
di proporzione di cui all'art. 27, comma 3, Cost., nella sua versione
che   si   potrebbe  definire  "classica",  ossia  come  criterio  di
congruenza  tra tipo e quantita' di pena e gravita' del fatto tipico.
Nel  caso di specie va osservato che la mancata previsione della pena
pecuniaria  comportava  l'impossibilita'  di  adeguare il trattamento
sanzionatorio all'effettivo disvalore del fatto in concreto commesso.
L'illegittimita'  costituzionale  di  questa  soluzione, almeno per i
"casi piu' lievi", emerge ancora una volta dal raffronto col reato di
ingiuria,  sotto  il  profilo  del  criterio di ragionevolezza di cui
all'art. 3, Cost. D'altra parte se un simile raffronto, giustificato,
come  si  e'  visto,  dal  fatto  che  in  questi  casi  entrambe  le
fattispecie  finiscono col tutelare il medesimo bene giuridico, senza
apprezzabili differenze, portava a considerare irragionevole una pena
detentiva  superiore  di  dodici  volte  nel  limite minimo (sentenza
n. 314/1994  cit.), a fortiori si poteva ritenere incostituzionale la
mancata  previsione  della  pena pecuniaria, in alternativa alla pena
detentiva,  prevista  invece  dall'art. 594  c.p. Non si deve infatti
dimenticare  che  la previsione della sola pena detentiva va limitata
alle   sole   ipotesi   in   cui   la   gravita'   dell'illecito  sia
particolarmente  elevata,  ed assolutamente indispensabile il ricorso
alla  detenzione,  mentre  le  sperequazioni  punitive tra ipotesi di
reato  comparabili,  per relativa omogeneita' di contenuto offensivo,
in  ordine  alla qualita' prima ancora che alla quantificazione della
pena,  finiscono  con  l'incidere  negativamente  sulla  funzione  di
prevenzione  generale, perche' denunciano casualita' ed eccentricita'
dell'incriminazione (circolare Presidenza del Consiglio dei ministri,
cit.,  16,  6.2).  Si e' peraltro gia' osservato che la previsione di
una  pena  pecuniaria  modifica  il  giudizio sulla proporzione della
pena,  in  termini  generali, rispetto alla gravita' del fatto reato,
venendo  ad  incidere  sul bene fondamentale della liberta' personale
(art. 13  Cost.) solo in via eventuale ed in minor misura (attraverso
la sostituzione in liberta' controllata o lavoro sostitutivo).
    Infine  il problema dell'individuazione dei limiti edittali della
pena   pecuniaria,   conseguenti  ad  un'eventuale  dichiarazione  di
incostituzionalita'  della  norma,  limitata a questo aspetto, poteva
agevolmente  essere  risolto  mediante  il  riferimento  o  ai limiti
generali   di   cui   all'art. 24  c.p.  oppure  al  limiti  previsti
dall'art. 594 c.p., ossia previsti per il reato assunto quale tertium
paragonis, secondo una tecnica non nuova e seguita dalla stessa Corte
costituzionale in un caso in cui l'omogeneita' strutturale tra le due
fattispecie   poste  a  confronto  era  certamente  minore  (sentenza
n. 409/1989 cit.).
    4. n) - (segue) b) Procedibilita'.
    In  ordine  alla  procedibilita',  poteva  essere sottolineato il
profilo  di  una  disparita' di trattamento questa volta ai danni dei
pubblici  ufficiali,  discriminati,  rispetto  ai  comuni  cittadini,
perche'  privati  del potere di proporre, come anche di non proporre,
nonche'  di rimettere, la querela a tutela della propria onorabilita'
(cfr.  Pret.  Prato  15 gennaio  1975  in  Giur. Cost. 1975, 1732, la
relativa  questione,  sollevata  con esclusivo riferimento all'art. 3
Cost., e' stata respinta dalla sentenza 2-14 aprile 1980 n. 51).
    In  questa  sede  la  questione  deve essere riproposta, anche in
riferimento  all'art. 97  Cost. e, soprattutto, all'art. 25, comma 2,
Cost.,  sia  sulla  base  di  tutto quanto gia' si e' detto in ordine
all'obiettivita' giuridica del reato, sia cercando di svelare i nessi
tra  funzione  della  procedibilita'  a  querela  e  natura  del bene
protetto   dall'art.   594   c.p.,   in   rapporto  al  principio  di
determinatezza.
    Sotto  il  primo  profilo  bastera'  ricordare  come l'originaria
configurazione  del reato concepisse la tutela dell'onore del singolo
p.u.  come  semplice  "mezzo"  per  perseguire  un fine di piu' ampia
portata,  ossia il principio di autorita', sicche' veniva imposta una
correlazione necessaria tra lesione del bene personale dell'onore del
singolo   p.u.   e  dimensione  pubblicistica  dell'offesa,  con  una
soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore che vi era
sottesa,  di  una certa coerenza, perche' innegabile e' la congruenza
con  quel  fine dello strumento apprestato. Ma, come si e' visto, una
simile  congruenza  inevitabilmente  svanisce  una  volta  mutata  la
prospettiva   di  tutela  mediante  l'adozione  delle  finalita'  del
prestigio  o  del  buon  andamento  della  p.a.,  in  luogo di quella
originaria,  perche'  a  questo  punto era la stessa estensione della
fattispecie  a  non trovare piu' valida giustificazione, tanto da far
apparire  lo  strumento  di  cui  all'art. 341  c.p. come palesemente
incongruo rispetto a quei fini.
    Si aggiunga che il significato della procedibilita' della querela
per  i  reati di ingiuria e diffamazione (art. 597 c.p.) va ricercato
nell'individualita',  si potrebbe dire "intimita'" del bene giuridico
protetto dell'onore, quale diritto della personalita' di ciascun uomo
in quanto tale, in se' e per se' considerato, e nell'obiettiva scarsa
gravita'  che spesso queste condotte, sotto il profilo dell'interesse
statuale  al  mantenimento dell'ordine sociale, assumono. Con cio' si
vuol  dire  che  si  tratta  di condotte che tipicamente si originano
nell'ambito  di conflitti interpersonali, coinvolgenti una dimensione
prima di tutto, per cosi' dire, "privatistica", che spesso trovano un
adeguato  componimento nell'ambito del medesimo rapporto, mediante ad
es.,  presentazione di scuse o risarcimento dei danni, sicche' appare
oltre  modo  opportuno  limitare l'intervento punitivo dello Stato al
caso  di  presentazione di querela anche al fine, mediante l'istituto
della remissione, di favorire componimenti in via bonaria. Inoltre la
funzione  della  querela, in stretta correlazione con il principio di
determinatezza di cui all'art. 25, comma 2, Cost., consiste anche nel
selezionare  le  condotte realmente offensive, in modo da arginare il
rischio che l'azione penale sia promossa in relazione ad un'infinita'
di  fatti  bagattellari  con  evidente  pregiudizio  di un'efficiente
amministrazione della giustizia.
    Ebbene  col  reato di oltraggio a p.u., procedibile d'ufficio, si
veniva    a    realizzare    una   sorta   di   "sacrificio"   o   di
"strumentalizzazione"  di  un  bene specificatamente personale, quale
l'onore  del  singolo  p.u.,  in  funzione  del  perseguimento di una
finalita'   pubblicistica   trascendente  l'interesse  della  persona
fisica,  che  tuttavia  si risolveva alternativamente o in una scelta
credibile  ma  di per se' in contrasto con la Costituzione (principio
di  autorita),  ovvero  in  una  scelta  di  per  se'  conforme  alla
Costituzione  (prestigio  o  buon  andamento  della p.a.), ma che non
trovava  alcun  riscontro  nella  struttura  del  reato,  essendo  il
collegamento  con  la  pubblica  funzione tanto generico da risultare
evanescente.  Vi  e'  allora  da  chiedersi  se  fosse  razionalmente
giustificabile  il  sacrificio imposto ai p.u., privati del potere di
tutelare  autonomamente  un  bene  della  loro  personalita'  ed anzi
gravati   dell'obbligo   di   presentare   denunzia,  da  una  tutela
"pubblicistica",  priva  in realta' di concreti elementi di riscontro
normativo.  O  non  fosse piuttosto preferibile, e costituzionalmente
imposto,  selezionare, dal punto di vista tipologico, quelle condotte
la  cui  punizione fosse effettivamente funzionale alle finalita' del
prestigio  e/o  del  buon andamento della p.a. e lasciare negli altri
casi alla libera decisione del singolo p.u. la tutela dei beni propri
della  sua  personalita', mediante l'esercizio del potere di proporre
querela.
    L'art.  341  c.p.  incideva anche pesantemente sul buon andamento
della   p.a.   in  generale  e  dell'amministrazione  giudiziaria  in
particolare, imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u. e,
dall'altro  l'obbligo  dell'esercizio  dell'azione  penale  (art. 112
Cost.)  in  ordine  a  tutti  i  casi,  anche  quelli  obiettivamente
bagattellari  ed  in  cui  il p.u. non si fosse sentito offeso (e non
avrebbe pertanto presentato querela) o avesse ricevuto tutte le scuse
del caso(e avrebbe pertanto presumibilmente rimesso la querela).